di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi
Alla fine degli Anni 80, la parte di attività economica gestita dallo Stato era in Italia superiore a quella di qualsiasi altro Paese europeo, eccezion fatta per la disastrosa parentesi dei governi Attlee e Bevan in Gran Bretagna.
Quel modello entrò in crisi all’inizio degli Anni 80, crisi politica e morale oltre che economica. Fu Giuliano Amato, prima da ministro del Tesoro, poi da presidente del Consiglio, ad avviare il processo per sottrarre le banche al controllo pubblico, creando i presupposti per la privatizzazione di Efim, Eni e IRI. Fu un cambiamento tanto radicale da paragonarlo (il paragone è dello stesso Amato) al passaggio tra regime fascista e Repubblica.
Perché, nonostante la ovvia differenza fra la dittatura mussoliniana e la Repubblica democratica, entrambe non conoscevano il senso del limite dell’intervento pubblico.
E sbagliato dire che non ci fosse una strategia e, ce lo consenta Raffaele Bonanni, non è da par suo sostenerlo sulla base dell’usurato folklore della finanza (giudaico-massonica?) a bordo del panfilo della regina d’Albione.
Prima ancora dell’esigenza di ridurre il debito (che comunque per effetto di quelle privatizzazioni scese in un quinquennio di 12 punti in rapporto al Pil, un risultato mai più ripetuto), c’era l’obbiettivo di restituire al mercato la parte di economia che per mezzo secolo era stata sottratta all’iniziativa privata.
Non solo questo aveva prodotto risultati che sarebbe impietoso ricordare (si pensi al fallimento dell’Efim che lasciò un buco stimato dal liquidatore, il professor Predici, in circa 7 miliardi di euro), ma soprattutto aveva impedito il formarsi di un vero capitalismo privato.
Per avviare le privatizzazioni venne approntato un nuovo quadro legislativo: il Testo Unico sulla Finanza, compresa la legislazione sull’Opa per rendere contendibili le aziende; la legge 474 per dare un quadro legislativo alle modalità di privatizzazione e alla destinazione del ricavato; le autorità di regolamentazione come condizione per privatizzare i servizi pubblici essenziali (se alcune non hanno funzionato è anche per il modo in cui la politica spesso ne ha gestito le nomine, non certo per colpa dei privati regolati).
Ma dopo averli tenuti nella bambagia per sessant’anni (con alcune importanti eccezioni), non si poteva pensare che spuntassero all’improvviso imprenditori italiani robusti.
A quello che era stato definito «capitalismo senza capitali» (e, potremmo aggiungere, con pochi imprenditori) si chiese di trovare i capitali, finanziari e umani, per acquisire oltre all’Iri, all’epoca la più grande azienda d’Europa, l’Enfi e altre più problematiche attività. Il tutto vincendo le resistenze interne dei manager delle aziende di Stato. Tutto si può fare meglio, ma essere riusciti a farlo comunque e in poco tempo, è stato un grande successo di cui andare orgogliosi. E, ci consenta di osservare, sin dall’inizio le critiche nascondevano la difesa di interessi particolari che le privatizzazioni avrebbero smantellato (ricorda la Stet?).
La riduzione delle spese è all’ordine del giorno. Ma, come abbiamo ricordato nell’articolo del 5 novembre, per tagliare le spese ci sono due modi: uno è ridurre quanto si spende per fare le cose, l’altro è ridurre le cose che si fanno. Il primo modo è sempre a rischio, richiede uno sforzo continuo nel tempo; il secondo è definitivo. Finché un’attività è dello Stato, lo Stato deve gestirla, e ciò costa soldi e comporta responsabilità. Dopo che ha venduto, lo Stato non gestisce più: la dimensione e i costi dell’amministrazione si riducono in modo permanente. Ciò che succede dopo, giusto o sbagliato che sia, lo è per gli azionisti, allo Stato non costa.
Vendere un’impresa pubblica non significa ridurre la ricchezza del Paese. Le aziende statali non sono, se non in senso strettamente contabile, «ricchezza del Paese». Al contrario, spesso la inibiscono impedendo od ostacolando la nascita di aziende che provino a far e le stesse cose senza la copertura del «papà Stato». La ricchezza di un Paese sta nella sua produttività e nella sua capacità di innovare, che non nascono certo fra imprenditori protetti dallo Stato. Il prestigio di un Paese non sono le aziende statali: è il fatto che la gente voglia venirci per lavorare e provare ad avere successo. Magari investendo in Italia, acquistando un’azienda. Ma perché dovrebbe farlo se sa che verrà pregiudizialmente accusato di essere complice di una «svendita»?
novembre 11, 2013