Ma le privatizzazioni dove sono?

gennaio 24, 2012


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Le liberalizzazioni servono a crescere se smontano le inefficienze

“Liberalizzare non è privatizzare”: solo un inciso del Presidente Monti nella sua articolata presentazione del decreto liberalizzazioni, ma rivelatore, e utile per ragionare sul senso complessivo dell’azione di governo, del risanamento dei conti pubblici e della crescita, di Salva Italia e delle liberalizzazioni.

La crescita è necessaria, ma non è la crescita che ci farà uscire dalla crisi del debito. Carmen Rheinhard e Kenneth Rogoff, nel loro ormai classico This time is different, analizzando cosa è successo a paesi di media grandezza dal 1970 al 2000, hanno trovato che solo in 4 casi su 22 il risanamento fu ottenuto grazie alla crescita. Difficile abbattere lo stock agendo sui flussi; ci andrebbero diecine e diecine d’anni per ridurre il rapporto debito/PIL solo facendo crescere il PIL al denominatore, e bloccando il numeratore con l’austerità. La crescita è necessaria perché solo così si creano posti di lavoro e si tiene il passo con gli altri paesi dell’euro: ma anche il (bis)trattato di Lisbona era volto alla crescita, mica alla riduzione del debito.

Le liberalizzazioni servono alla crescita se smontano quello che la razionalità tecnocratica ha costruito e la convenienza burocratica ha consolidato. “A buon senso , scrive John Kay (Financial Times, 18 Gennaio 2012) ci verrebbe da pensare che sia più efficiente pianificare l’allocazione delle risorse che farlo in modo non coordinato. Ma così continuiamo a sovrastimare l’efficienza e la longevità delle grandi aziende.” Soprattutto di quelle che sono diventate grandi perché la “razionalità” le voleva di proprietà pubblica, e questa garantiva un diritto di monopolio, esplicito o implicito. Liberalizzare significa lasciare spazio a chi rischia e innova, evitando che lo trovi tutto occupato; significa lasciare che la molla dell’interesse vada a vantaggio di chi vuole creare ricchezza nuova anziché a favore di chi vuole appropriarsi della ricchezza creata in passato da altri. Per questo è quasi impossibile liberalizzare un settore in cui opera un’azienda pubblica.

Liberalizzazioni per ridurre l’ingerenza dello stato, spending review per ridurre le spese, privatizzazioni di aziende e immobili: sono le parti di un progetto complessivo, fare uscire dal bilancio dello Stato interi “pezzi” della Pubblica Amministrazione. Se si vuole evitare sia il default a carico di chi ha comperato i BTP (lucrandone gli interessi), sia la confisca della ricchezza patrimoniale dei cittadini, bisogna ridurre lo “stock dello stato”, la sua dimensione. Uno stato che chiede ai cittadini (quelli che pagano le tasse) quasi il 60% dei loro guadagni, se non riduce drasticamente il suo peso, non sarà mai in equilibrio, qualunque impegno sia scritto in Costituzione. Ridurre le auto blu è una misura di austerità, ma il peso dello stato si riduce solo quando i relativi autisti non sono più a carico del bilancio pubblico. Può perfino accadere che il PIL contabile temporaneamente scenda: quando la Kahn Academy (o il MIT, o altri), mettono in rete gratuitamente corsi di matematica di prim’ordine, spiazzano potenziali insegnanti, il PIL diminuisce, ma molti più studenti si avvantaggiano di quel servizio, indipendentemente dal loro reddito. Non vuol dire licenziare in massa: gli autisti formeranno una cooperativa, gli insegnanti scriveranno pagine web: e sui furgoni che portano i pacchi basterebbe cambiare il logo. Vuol dire ridurre quello che lo stato fa in prima persona, una ristrutturazione pari a quella che ha fatto l’impresa privata coinvolgendo milioni di lavoratori.

Il decreto liberalizzazioni era l’occasione per dispiegare una grande “narrativa”, fare entrare aria fresca, mobilitare energie a muoversi in nuovi spazi di libertà. Con tutto l’apprezzamento per l’ampiezza dei problemi affrontati, più che aria fresca si sente la cappa di norme e regolazioni; e gli spazi di libertà vanno ricercati nel labirinti di mediazioni e cautele sui tempi di attuazione. All’insegna del “liberalizzare non è privatizzare”, sono state evitate le liberalizzazioni propedeutiche alle privatizzazioni, dalle Poste all’Enav, quella di SnamReteGas è comunque rimandata a due anni, e la separazione della rete dal trasporto ferroviario è ridotta a uno studio che dovranno fare le risorse di cui dovrà dotarsi la ribattezzata Autorità per l’Energia: e ad ogni buon conto senza impegno.

Per quanto riguarda quello che deve essere il progetto complessivo dell’azione di governo, ridurre lo “stock” di attività dello Stato, manca non solo la narrativa, ma anche il titolo: e che ci sia l’autore è dubbio. Dubbio legittimato da un indizio nel decreto liberalizzazioni, là dove, negli organismi che devono attuare le liberalizzazioni e regolare le attività, si cumulano compiti del tutto eterogenei, con distinzioni non sempre chiare. Anziché avere responsabilità precise e trasparenti, la sintesi politica (rectius il compromesso) viene posta non al livello ministeriale ma a carico di Autorità, che così non sono più di settore e rischiano di non essere più indipendenti. E quanto a fare uscire qualcosa dal perimetro dello stato, non una parola è stata detta sugli assetti proprietari di Snam Rete Gas, se saranno decisi dal mercato o imperniati con i soliti bizantinismi sulla Cassa. Si accettano scommesse.

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