Rifondare I DS? Certo, partendo però dagli uomini che hanno fatto parte del governo
“Muoiono anche i partiti” è il grido di dolore che Miriam Mafai ha lanciato dopo l’ultima direzione DS. Ma il problema per i DS non è della buona morte ma del significato della vita; non è risalire da quel misero 16% dei voti ottenuti al proporzionale, ma definire la propria natura. E cioè se essere un partito che ambisce ad avere la guida dell’opposizione e ad esprimere il futuro candidato premier, o se accettare di essere confinati nel ruolo di portatori di truppe, che al comando possono dare solo il numero due. Da questo punto di vista, per i DS, peggio ancora della loro direzione è stata la successiva riunione dei comitati per Rutelli: sul palco c’erano Veltroni e Fassino, la rappresentazione vivente di una ricorrente subalternità.
Se si trattasse solo di arrestare il declino, il compito sarebbe facile, la via larga e aperta come un’autostrada. Dicendo qualcosa di sinistra al lavoro dipendente e sui pensionati, aggregando un po’ di disagio sociale, confortando la sinistra dei valori e dell’antiberlusconismo militante, qualche punto in più pure lo si rimedia. Ma a che serve, quando da 50 anni si sa che neppure il 35% dei voti basta a occupare il centro della scena politica?
Neppure la prospettiva di approdare all’Ulivo federandosi con la Margherita risolve per i DS il problema della leadership, si limita a spostarlo di un livello: se vogliono essere la guida della federazione i DS devono esprimere un progetto che interessi la maggioranza dell’elettorato, e dunque saper “dire qualcosa” al centro.
Se il tema è quello della leadership, si deve riconoscere che l’unico dei DS che finora era riuscito a conquistarla – con la forza o con l’astuzia – è Massimo D’Alema. I suoi partigiani continuano a cercare in lui l’energia rassicurante di un pater familias duro e severo quanto basta. In fondo, è riuscito a far eleggere, facendo scorrere il sangue, Luciano Violante capogruppo alla Camera; e in direzione Veltroni e Folena hanno respinto a parole la sua offensiva, ma, nei fatti, D’Alema ha vinto nella composizione del comitato di reggenti incaricato di preparare il congresso.
Tuttavia, se i dalemiani riuscissero a imbrigliare il dibattito precongressuale, l’esito sarebbe una pericolosa scorciatoia. Per superare la diarchia D’Alema Veltroni e scardinare le correnti che sotto quella diarchia sono cresciute, non serve un delegato all’esercizio della patria potestà, serve un’intera famiglia, un gruppo dirigente formato da esponenti formatisi su esperienze diverse, dunque in primo luogo da persone che proprio al Governo hanno partecipato della leadership. Penso a Fassino stesso, se saprà mettersi nel segno della discontinuità anziché della continuità. Penso a Pierluigi Bersani e al suo ulivismo moderato e pragmatico. Penso a Giovanna Melandri, che seppe anche mostrare grinta e guadagnarsi una popolarità inferiore solo a quella del recordman Umberto Veronesi. Anche Cofferati: la sua ultima intervista è la riproposizione di un riformismo tradunionista da anni 70, ma nell’esigere la necessità di una rottura con il passato è stato il più netto.
Certo, dopo l’elezione di Veltroni a sindaco di Roma, chiedere il superamento della diarchia può essere letto come se il solo D’Alema dovesse fare un passo indietro. La sconfitta del 13 Maggio non cancella la precedente sconfitta alle elezioni regionali, né Gallipoli può servire a ribaltarla: ma non si può chiedere a D’Alema di rinunciare alle sue legittime ambizioni. Sta piuttosto ai riformisti, agli ex veltroniani , agli ulivisti che non credono che i DS debbano semplicemente sciogliersi nelle braccia di Rutelli, trovare l’alleanza su un candidato e su un gruppo dirigente su cui fare battaglia in vista del congresso.
giugno 8, 2001