«E’ mancata la risposta dell’offerta. L’erosione delle nostre quote di mercato risulta più ampia di quella imputabile ai costi relativi». Nelle considerazioni finali del Governatore quest’anno c’erano parole che sono parse severe verso gli imprenditori: non è colpa solo della politica e del Governo se il sistema Italia ha perso drammaticamente in competitività rispetto ai partner europei. Lo spunto è stato colto subito da Cofferati «Le amnesie degli industriali e i sacrifici per l’euro» La Repubblica del 4 giugno); e l’avvocato Agnelli ha positivamente commentato l’equilibrio e l’equanimità che, anche grazie a questo passaggio, connotano l’intero ragionamento sviluppato da Antonio Fazio. Ma a ben vedere si tratta di un rilievo che gli imprenditori non hanno nessuna ragione di prendere come un’ accusa.
La produttività del lavoro è cresciuta in Italia nel quinquennio dello 0,7%, contro il 4% degli altri grandi Paesi industriali. Ma, come ha rilevato Ugo Meroni (Affari e Finanza del 5 giugno) «la mancata risposta da parte dell’offerta in termini di composizione e qualità della produzione [...]non rappresentano la causa quanto l’effetto di un’economia che non investe, poiché il miglioramento del trend della produttività del lavoro è strettamente connesso con l’accumulazione dello stock di capitale. I nessi causali sono da Fazio invertiti, poiché sono gli investimenti quale componente della domanda effettiva il prius della crescita dello stock di capitale e della produttività del lavoro».
«Perché — si domanda Paolo Leon sull’Unità del 6 giugno — le imprese italiane investono poco e innovano ancora meno?». E’ lecito chiederselo, purché sia chiaro che con «imprese italiane» si intendono quelle che operano in Italia, e non già quelle la cui proprietà è di cittadini italiani. Il fatto che l’Italia sia il fanalino di coda in Europa quanto a capacità di attrarre investimenti esteri dovrebbe sgombrare il campo dalla fallacia che la bassa propensione agli investimenti dipenda da qualche caratteristica antropologica della classe degli imprenditori italiani, o da loro comportamenti di gruppo, spontanei o indotti: quella che osserviamo e lamentiamo è la risultante di uno sterminato numero di decisioni assunte da milioni di imprenditori.
Non si intende con questo attribuire aprioristicamente alle decisioni degli imprenditori il dono della razionalità. È certamente lecito esprimere un giudizio critico sul risultato complessivo di singole libere decisioni: il rischio è che c’è sempre qualcuno che ne trae spunto per confrontare il dato di realtà con quello che avrebbe potuto esprimere una qualche superiore razionalità esterna, a cui i comportamenti degli individui dovrebbero conformarsi. Riemerge la nostalgia verso la pianificazione, magari nella forma che da noi era stata affidata alle imprese di Stato. A esse sembra si riferisca Sergio Cofferati quando si chiede se «la ricerca che ha fatto forte l’impresa italiana degli anni ’60» sia davvero un reperto del passato». Non è certo per questo motivo che i sindacati subordinarono la loro accettazione delle privatizzazioni alla conservazione dei perimetri aziendali dei grandi monopoli pubblici: volevano mantenere il potere sindacale, e il risultato fu di rendere più lungo e difficile lo smantellamento del potere di monopolio.
È diffusa l’opinione che la capacità di innovare e la propensione a investire siano positivamente correlate alla dimensione di impresa. In realtà le cose sono meno semplici, si potrebbe perfino supporre che sia vero il contrario: negli USA i capitali per finanziare piccole imprese innovative sono forniti anche da grandi aziende che sanno come le loro strutture gerarchiche e i processi decisionali pongano vincoli soffocanti all’innovazione. Se invece si vuole lamentare il ridotto numero delle imprese italiane di grande dimensione, si tratta di un fatto che è esso stesso risultante di quei vincoli che frenano la propensione agli investimenti. Un altro aspetto del problema di cui si discute, non una sua spiegazione.
Servizi pubblici, compresi quelli forniti dalla Pubblica Amministrazione; ambiente normativo, compreso quello sul lavoro e sulla previdenza; regime fiscale e contributivo; costo del danaro e disponibilità di finanziamenti; contendibilità del controllo e leggi fallimentari: è il sistema economico nel suo complesso ciò che influenza le decisioni di investimento degli imprenditori. In questo sistema, Bankitalia interveniva in prima persona quando aveva da sola il potere di determinare il tasso di sconto. Oggi lo fa mediatamente, membro del Sistema delle Banche Centrali; e direttamente esercitando i compiti di vigilanza bancaria e di antitrust bancario che la legge le conferisce.
Andrebbe di conseguenza ridimensionata, secondo Eugenio Scalfari (“Pecoraro Gay Pride e Banca d’Italia”, La Repubblica del 4 Giugno) l’importanza che si attribuisce alle parole del Governatore: ormai – sostiene Scalfari – la politica monetaria si fa solo a Francoforte, e Fazio conta solo più per un diciassettesimo. Ma ciò contrasta radicalmente con il rilievo che i singoli banchieri nazionali continuano ad avere nel Forum per la stabilità internazionale, nel G10, nella Banca per i regolamenti internazionali di Basilea, nonché all’interno di quell’organo che, come Fazio ha sottolineato fin dall’inizio, si è rivelato assai importante nelle determinazioni delle linee della Bce, e cioè il consiglio in cui gli 11 Governatori affiancano Wim Duisemberg e la sua squadra ristretta.
Nel sistema descritto da Fa-zio, dice Scalfari, sono più le incognite che le equazioni: e vivaddio, vien da rispondere, che più nessuno pensa che possa essere il contrario. L’economia non è una scienza esatta, forse neppure una scienza. Le considerazioni finali non emettono sentenze né anno pagelle. Un conto è sostenere che i rilievi su cui tanto si è discusso non sono un’accusa, altro sminuirne la portata. Le considerazioni del Governatore sono un fatto che influenza e modifica i comportamenti degli operatori. Proprio sulla funzione di investimento delle imprese sono stati Franco Modigliani -maestro di Fazio e Merton Miller che purtroppo pochi giorni fa ci ha lasciato — a dimostrare la relazione che lega la politica monetaria all’imposizione fiscale e alle imperfezioni del mercato dei capitali. Che oggi Fazio alla prima contribuisca solo per quota parte, e che gli altri due pilastri spettino a Governo ed operatori, nulla leva al fatto che Bankitalia resta l’istituzione meglio in grado di segnare la via dell’efficienza a chi dovrà poi percorrerla.
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giugno 9, 2000