Promessi meno oneri fiscali sul lavoro e recupero del “bon ton” istituzionale
Per l’ Unione di Romano Prodi, le elezioni del 9-10 aprile non registreranno solo la fine di un ciclo politico, ma dovranno realizzare la chiusura di una parentesi della nostra storia: una parentesi negativa, da archiviare in modo definitivo e senza appello. Questa, a mio avviso, é la chiave per comprendere il significato del programma dell’Unione.
Più delle 281 pagine in cui è stato minuziosamente messo nero su bianco il compromesso firmato dalle 11 componenti della coalizione su questioni anche controverse – dal traforo del Fréjus ai PACS, tanto per ricordare i temi più citati – è questa prospettiva politica a rivelare quale tipo di Paese abbia in mente l’Unione e verso quale modello di rapporti sociali voglia condurlo. La tesi è che questo sia un Paese sconcertato, che ha bisogno di essere rassicurato; un Paese diviso, che ha bisogno di essere ricompattato; che gli stimoli disordinati, le previsioni mancate, la cattiva gestione della spesa pubblica di cui questo Paese ha fatto esperienza sotto il governo Berlusconi siano le cause della cattiva performance della nostra economia, interpretata esplicitamente come “declino”.
“Domani è un altro giorno” è lo slogan che si legge sui manifesti dei DS; “la serietà al Governo” su quelli di Prodi. La metafora più frequente è quella di un Paese disastrato, dove è necessario rimuovere macerie. La “ricostruzione” è citata non solo per evocare il miracolo italiano del dopoguerra, ma anche in senso morale: ricostruzione di legalità dopo le leggi ad personam, di rapporti corretti col fisco dopo i tanti condoni, di un tessuto sociale lacerato dalle riforme che volevano scardinare gli snodi principali della nostra società, lavoro, giustizia, Costituzione. “Mandare a casa Berlusconi” è la priorità non solo per gli epigoni dei girotondini, o per gli arrabbiati alla Travaglio o alla Flores d’Arcais; non è neppure il ricorso all’unico tema condiviso senza riserve da tutto l’arco che va dai neo-democristiani di Mastella ai vetero-comunisti di Diliberto. Massimo D’Alema, l’uomo della Commissione Bicamerale, colui che nel 1996 visitandone gli studi aveva dichiarato che Mediaset era un asset nazionale, perfino Massimo D’Alema intende promuovere una modifica legislativa che imponga a Berlusconi di cedere le sue televisioni se vuole accedere a cariche pubbliche (incurante del fatto che una tal legge sarebbe probabilmente dichiarata anticostituzionale e comunque superata dal definitivo passaggio alla tecnologia digitale).
Un Governo di restaurazione: questa mi sembra essere la definizione più calzante di quello che l’Unione prospetta al Paese.
Si tratta di un cambiamento gigantesco rispetto al primo Governo Prodi. Anche nel 1996 la polemica con Berlusconi era al calor bianco, ma l’Ulivo si presentò come una risposta diversa e migliore agli stessi problemi a cui, nel 1994, Berlusconi aveva cercato di dare risposta con la sua sconclusionata doppia alleanza, al Nord con la Lega, al Sud con AN. Era, quella dell’Ulivo, un’autentica innovazione politica, con una forte carica riformatrice : e lo si vide all’opera, con le grandi privatizzazioni, con le riforme del diritto societario e l’OPA introdotte dalla legge Draghi, con la riforma Treu del mercato del lavoro, e soprattutto con l’entrata nell’euro insieme ai primi. Questa carica riformatrice, quest’aria di rinnovamento, sembra essere messa in secondo piano oggi nel programma dell’Unione : non (solo) per la difficoltà di farla accettare dalla coalizione, non solo perché sono passati, per i leader e per il Paese, dieci anni, ma per deliberata scelta di priorità politica. Questo vuole essere un Governo di restaurazione.
Berlusconi aveva proclamato il “liberi tutti” per scatenare gli animal spirit del nostro capitalismo: l’Unione chiede di rientrare nei ranghi. Berlusconi ha prodotto divisioni, in Confindustria , nel sindacato, nei magistrati e negli avvocati: l’Unione rimette al centro la pratica della concertazione. Berlusconi non ha perso occasione per dimostrarsi insofferente alle forme: l’Unione assicura il bon ton istituzionale, in patria e all’estero.
Ma la restaurazione non può assicurare la ripresa, soprattutto in un Paese con i problemi dell’Italia. Il grafico del suo “declino”, sia assoluto sia relativo agli altri paesi europei, inizia almeno quindici anni fa, è dunque dovuto a problemi strutturali: una politica di restaurazione inevitabilmente rischierebbe di radicarli ancor di più negli snodi della società italiana. Per rilanciare la crescita, per dare un’iniezione di competitività alle nostre imprese, Prodi ha proposto una misura shock, da effettuarsi subito: un taglio di cinque punti al cuneo fiscale sul lavoro, cioè agli oneri fiscali e contributivi che formano la differenza tra il salario percepito dal lavoratore e il costo sopportato dal datore di lavoro. Su questa proposta, sulla sua efficacia, e sui modi per coprirne i costi ( previsti tra i 9 e i 10 miliardi di €) ha finito per concentrarsi il dibattito politico: un risultato che finisce di risultare perfino un po’ ingiusto verso un lavoro sul programma, probabilmente eccessivamente complesso, ma sicuramente di largo respiro e frutto di serio impegno.
La riduzione dei contributi dovrebbe valere per tutte le imprese, esportatrici e non, manifatturiere o di servizi (ne sono esclusi ovviamente i dipendenti pubblici, per i quali sarebbe una partita di giro). Nella semplicità dell’obbiettivo iniziale, uno shock finalizzato alla crescita, si stanno via via insinuando obbiettivi più articolati: favorire i lavori meno remunerati, le persone più penalizzate nell’impiego, i sistemi che potenzino l’orientamento del sistema verso le nuove tecnologie.
Quanto al finanziamento dell’operazione, esso dovrebbe venire parte dall’ uniformare la tassazione delle attività finanziarie; parte ( la maggiore) dall’elevare le aliquote contributive per il lavoro autonomo e portarle vicino a quelle del lavoro a tempo indeterminato; parte dal recupero dell’evasione.
Ma la spiegazione ha a sua volta sollevato altri interrogativi, e non poche discussioni. Portare la tassazione delle rendite finanziarie al 20%, un’aliquota intermedia tra il 12,5% dei redditi finanziari ( compresi i BOT) e il 27% dei depositi bancari e postali, obbliga a prevedere franchigie per i percettori di redditi più bassi, dato che questi sovente sono anche quelli che hanno i loro risparmi investiti direttamente in BOT. Anche l’aumentare le aliquote contributive per il lavoro non a tempo indeterminato va incontro a qualche problema: tra gli autonomi vi sono lavoratori molto qualificati che possono ribaltare il costo dei contributi sul loro datore di lavoro, e vi sono lavoratori a bassa produttività per i quali l’aumento del costo contributivo rischia di significare l’espulsione dall’area del lavoro regolare e l’ingresso in quella del lavoro nero. E anche il recupero dell’evasione, finché non porta a una corrispondente riduzione delle aliquote, si traduce in un aumento della pressione fiscale.
Per parare l’accusa di essere il partito delle tasse, il centrosinistra può invocare ragioni oggettivamente valide e di sicuro consenso: di equità redistributiva ( il decile delle famiglie più ricche detiene il 40% di tutte le attività finanziarie detenute dalle famiglie, mentre il decile delle famiglie più povere ne detiene solo l’1,2%); di contenimento del lavoro precario. E’ quindi probabile che alla fine l’effetto sul voto di Aprile sarà o positivo o comunque non negativo. Quello che resta da vedere è se ne sarà valsa la pena, e cioè se la scossa sarà servita a far ripartire la crescita, ad agganciare la prevista ripresa tedesca, e a guadagnare il tempo necessario a mettere in atto le misure dal lato dell’offerta, istruzione, ricerca, servizi finanziari. Sono solo queste in grado di promuovere una crescita di lungo respiro.
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marzo 31, 2006