La vicenda della concessione delle bande di spettro per I’UMTS può essere considerata da più punti di vista: di diritto amministrativo, finanziario, di politica industriale. Ma, da qualunque punto di vista lo si esamini, appare chiaro che il processo di assegnazione individuato dal Ministero e Autorità non può concludersi senza un profondo riesame dell’intera situazione che si é venuta a creare. Ormai tutti sanno che in Inghilterra l’asta per assegnare 5 licenze ha già raccolto adesioni per un valore di circa 70.000 miliardi di lire e ha visto la partecipazione di 13 operatori da tutto il mondo, di cui 6 ancora in gara.
In Italia le cifre che si pensa verrebbero raccolte se non si intervenisse sul meccanismo di assegnazione dovrebbero essere dell’ordine di 3-4000 miliardi. Non fosse che alla gara inglese non partecipa nessuna impresa italiana potrebbe anche verificarsi il caso paradossale (ma io direi scandaloso) della spagnola Telefonica, che acquisisce una licenza nel proprio paese a una cifra che é di un ordine di grandezza inferiore a quella che é disposta a spendere per una licenza in Gran Bretagna.
Quanto alle caratteristiche dei due meccanismi – licitazione e asta – si rimanda a un lucidissimo articolo di Andrea Prat della London School of Economics e di Tommaso Valletti del Politecnico di Tonno, sul Sole 24 Ore del 18 Aprile: “Cellulari UMTS, un business che merita l’asta”. Vale la pena di riportare le argomentazioni che i due autori adducono per smontare le tesi di coloro che si oppongono all’asta. Essi dimostrano che il prezzo pagato dagli operatori non é una tassa, bensì riflette il costo opportunità di una certa banda per la quale vengono negati usi alternativi; che le aste sono un mezzo per massimizzare l’efficienza economica, non già le entrate per l’erario: quando uno dei contendenti abbandona l’asta è il segnale che sono rimasti come partecipanti attivi solo quelli che ritengono di essere più efficienti; che non é vero che la cifra versata aumenti in futuro i prezzi che gli utenti saranno richiesti di pagare per i servizi, dato che non vi é alcuna ragione logica per cui le politiche ottimali di un operatore debbano variare a seconda della cifra pagata per ottenere la licenza; che se un governo ritiene di dovere imporre obblighi di servizio universale, questi devono essere esplicitati nel bando di gara, e non lasciati alla riconoscenza di un operatore a cui é stato chiesto un esborso più contenuto; che, sebbene alcuni operatori siano falliti dopo aver vinto un’asta, nella stragrande maggioranza dei casi essi hanno ricuperato con profitto le somme impegnate.
Che fare ora? Qui bisognerebbe cedere la parola a esperti di diritto amministrativo. L’assegnazione stava procedendo in base a un decreto legislativo, il quale parla di licitazione e non di asta. Che cosa si può fare, a legislazione vigente, per riconquistare quel grado di libertà che consenta di ricorrere al meccanismo d’asta, senza il rischio che qualcuno poi si rivolga alla giustizia amministrativa e impugni l’esito della gara? Mi sembra importante sottolineare che questo riesame non ha solo lo scopo di evitare di essere chiamati a rispondere di non avere venduto nel modo più profittevole un bene pubblico, le bande dello spettro. Ciò che più conta é evitare di mettere in atto o di lasciare campo libero a meccanismi distorsivi della concorrenza e del mercato. I soldi si incassano e si spendono: ma un nuovo mercato che nasce distorto resta distorto per sempre. Dare una licenza a un operatore non efficiente é fonte di permanente inefficienza nel mercato. Consentire interventi discrezionali da parte del Governo produce legami che si perpetuano nel tempo e che continueranno a fare danni. Questo é il rischio a cui si va incontro con il beauty contest immaginato dal Governo: nel quale si dà spazio a elementi di valutazione assolutamente discrezionali, quali il piano industriale, o il piano occupazionale. Si sente suggerire che gli incassi potrebbero essere portati fino a livelli simili a quelli inglesi cambiando il valore del punto di merito, e il peso che i vari fattori hanno nel giudizio finale. Ma é la discrezionalità che va eliminata. L’idea — che é stata espressa anche dal presidente della Rai. durante l’ultimo congresso Anie — che una parte del valore potenziale delle frequenze potrebbe essere investita per scopi di alfabetizzazione informatica o per costruire infrastrutture. L’idea che lo stato disponga di criteri migliori del mercato per allocare risorse destinate allo sviluppo di quel mercato.
E’ proprio questa mentalità dirigistica che va sconfitta. Qui non stiamo parlando di impianti nucleari odi superjumbo, iniziative industriali con ritorni troppo incerti per poter essere finanziati
dal capitale privato. In un mercato dell’Unione Europea di dimensioni quasi uguali al nostro e usando la stessa tecnologia, diverse imprese fanno a gara. Se si adotta questo criterio limpido e trasparente, se le carte con cui si gioca sono quelle finanziare, allora anche la bilancia su cui leggere il peso “politico” di certe alleanze, il reagente con cui saggiare la caratura politica di certe cordate diventano strumenti fuori uso. Non si rimpiangeranno.
Questo é ciò che il Governo deve dare a questo nuovo mercato. Se é possibile ottenere tale risultato in modo limpido, senza compromessi con un’interpretazione non forzata e “a prova di Tar” dell’attuale decreto legislativo, bene. Altrimenti si abbia il coraggio di dire che si é sbagliato e si ponga mano a un nuovo strumento di legge: né si opponga alla possibilità di un cambiamento la necessità di non far perdere la faccia alla politica o di non far perdere un treno al paese. I Governi, come i treni, passano. Assai più lungo e costoso è raggiungere assetti concorrenziali di mercato: se si parte male.
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maggio 1, 2000