Lo Stato soffoca

luglio 24, 2000


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Il dato più significati­vo che emerge dall’analisi Ocse sul­le riforme dei sistemi di regolazione è la constata­zione che l’affidarsi a meccanismi e incentivi di mercato per raggiunge­re obbiettivi di interesse pubblico è diventato ne­gli ultimi due decenni un fatto consolidato. In tutto il mondo è ormai pacifi­co che anche gli obbietti­vi di servizio universale, di sicurezza e di rispetto ambientale possono esse­re raggiunti all’interno di assetti competitivi.

Era chiedere troppo pensare che l’Italia, che dei Nesi occidentali è sta­ta quello che ha conosciu­to una più pervasiva pre­senza’ del pubblico nell’economia, che ha i pregiudizi antimercato scritti nella propria costi­tuzione, fosse in prima fi­la nel promuovere questo cambiamento culturale?

La fine dello statalismo non è venuta per reazione culturale, ma per esauri­mento economico: prima i disastri Egam ed Efim, poi la quasi bancarotta dell’Iri e le procedure di infrazione di Bruxelles. Anche negli anni 80 le indubbie innovazioni sul piano politico si sono svi­luppate senza intaccare, anzi avendo cura di non intaccare, il sistema della proprietà pubblica usata come terreno da spartire tra le forze politiche.

A ricordarlo, sembra di parlare di un’altra epoca. E in effetti queste cose possono apparire superate alla luce di quanto è stato poi fatto: l’istituzione delle autorità per elettricità, gas e comunicazioni; un’ Antitrust autorevole e. rispettata; 150mila miliardi di privatizzazioni; leggi sulla corporate governante che hanno consentito spettacolari battaglie per il controllo della proprietà. Sono invece cose su cui con­viene riflettere per individuare le ragioni dei voti non certo brillanti che l’Italia ha conseguito anche in questo esame.

Il fatto è che la presenza pubblica, almeno nella forma in cui si è storica­mente realizzata soprattutto negli ul­timi 30 anni, ha danneggiato la cultu­ra del mercato non solo perché sot­trae spazi di attività economica all’iniziativa priva­ta, ma perché indu­ce comportamenti opportunistici an­che nei settori “libe­ri”, perché crea un reticolo di rapporti, di convenienze, di interessi che è poi lungo e faticoso estirpare.

Prendiamo il settore, tra l’altro non oggetto dell’indagine Ocse, del­la tv: è evidente che il sostanziale duopolio influenza anche il compor­tamento dell’azienda privata. Se la Rai non fosse di proprietà pubblica — nella fattispecie partitica, — Me­diaset non sarebbe forse ancora più aggressiva nel cercare di espandersi?

Controprova: la telefonia mobile, dove la concorrenza è venuta quasi fin dall’inizio, è l’unico tra i settori esaminati, in cui abbiamo una buona posizione; mentre nella telefonia fis­sa, nonostante siano state assegnate oltre 110 licenze, cinquant’anni di monopolio si fanno sentire.

Sul piano dei principi, quella del controllo pubblico delle imprese di stato è una linea del Piave su cui ormai non ci sono più truppe attesta­te. Le resistenze si sono spostate sul piano degli interessi, massimamente degli interessi locali. Un governo ap­poggiato anche da Rifondazione Co­munista ha privatizzato Telecom in un sol colpo — cosa che non era riuscita neanche alla Thatcher — ma un’amministrazione di destra e deci­sionista come quella di Milano non ha ancora venduto le farmacie comu­nali. Per far passare in Senato la legge sui servizi pubblici locali si sono dovuti accettare — imposti da destra come da sinistra — compromessi poco edificanti: come la pro­prietà pubblica delle reti di acqua e gas, periodi transitori lunghissimi, il permanere di pericolosi intrecci pub­blico-privato.

Proprio perché è così difficile e lento procedere sulla strada della li­beralizzazione là dove sono in gioco interessi corporativi molto diffusi (è il caso del commercio o delle profes­sioni), proprio per questo è invece necessario procedere con maggiore decisione sugli obbiettivi “grossi”. Che secondo me sono quattro:

  1. sull’Enel si è concesso troppo: adesso bisogna che la vendita delle centrali sia rapida e totale (e perché non chiedere che sia anche più este­sa?): e che non serva all’Enel per formare alleanze transnazionali che potrebbero masche­rare accordi sui ri­spettivi mercati. E finché Enel è sotto controllo pubblico, questo deve far ri­spettare l’impegno a dismettere Wind;
  2. nel gas è indub­bio merito del mini­stro dell’Industria Enrico Letta avere dettato condizioni di liberalizzazioni più avanzate: resta il nodo della separazione proprietaria della trasmissione in alta pressione, che però l’Eni avrebbe intenzione di quotare in Borsa. E resta aperta la questione dei contratti take or pay sul metano, in cui la Snam è stata di fatto salvaguardata;
  3. nelle comunicazioni lo spazio aperto per un’Autorità energica e lun­gimirante è largamente inesplorato. Solo per fare un esempio: la vicenda dell’Umts dovrebbe essere punto di partenza per introdurre sistemi di as­segnazione delle frequenze con un metodo — l’asta — che consente al mercato di scegliere gli imprenditori più idonei;
  4. restano i trasporti, la desolante eterna storia delle Ferrovie dello Sta­to: certo qualcosa sembra muoversi, ma è assolutamente troppo poco. Bi­sogna ribellarsi all’idea che il dissesto economico e l’inerzia siano una condanna biblica. E ci ricordiamo bene di quanto insufficiente sia stato il supporto politico alle iniziative dei vertici dell’azienda.

Perché, infine, le liberalizzazioni sono compito della politica: nel realiz­zarle, e nel diffonderne la cultura.

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