Il dato più significativo che emerge dall’analisi Ocse sulle riforme dei sistemi di regolazione è la constatazione che l’affidarsi a meccanismi e incentivi di mercato per raggiungere obbiettivi di interesse pubblico è diventato negli ultimi due decenni un fatto consolidato. In tutto il mondo è ormai pacifico che anche gli obbiettivi di servizio universale, di sicurezza e di rispetto ambientale possono essere raggiunti all’interno di assetti competitivi.
Era chiedere troppo pensare che l’Italia, che dei Nesi occidentali è stata quello che ha conosciuto una più pervasiva presenza’ del pubblico nell’economia, che ha i pregiudizi antimercato scritti nella propria costituzione, fosse in prima fila nel promuovere questo cambiamento culturale?
La fine dello statalismo non è venuta per reazione culturale, ma per esaurimento economico: prima i disastri Egam ed Efim, poi la quasi bancarotta dell’Iri e le procedure di infrazione di Bruxelles. Anche negli anni 80 le indubbie innovazioni sul piano politico si sono sviluppate senza intaccare, anzi avendo cura di non intaccare, il sistema della proprietà pubblica usata come terreno da spartire tra le forze politiche.
A ricordarlo, sembra di parlare di un’altra epoca. E in effetti queste cose possono apparire superate alla luce di quanto è stato poi fatto: l’istituzione delle autorità per elettricità, gas e comunicazioni; un’ Antitrust autorevole e. rispettata; 150mila miliardi di privatizzazioni; leggi sulla corporate governante che hanno consentito spettacolari battaglie per il controllo della proprietà. Sono invece cose su cui conviene riflettere per individuare le ragioni dei voti non certo brillanti che l’Italia ha conseguito anche in questo esame.
Il fatto è che la presenza pubblica, almeno nella forma in cui si è storicamente realizzata soprattutto negli ultimi 30 anni, ha danneggiato la cultura del mercato non solo perché sottrae spazi di attività economica all’iniziativa privata, ma perché induce comportamenti opportunistici anche nei settori “liberi”, perché crea un reticolo di rapporti, di convenienze, di interessi che è poi lungo e faticoso estirpare.
Prendiamo il settore, tra l’altro non oggetto dell’indagine Ocse, della tv: è evidente che il sostanziale duopolio influenza anche il comportamento dell’azienda privata. Se la Rai non fosse di proprietà pubblica — nella fattispecie partitica, — Mediaset non sarebbe forse ancora più aggressiva nel cercare di espandersi?
Controprova: la telefonia mobile, dove la concorrenza è venuta quasi fin dall’inizio, è l’unico tra i settori esaminati, in cui abbiamo una buona posizione; mentre nella telefonia fissa, nonostante siano state assegnate oltre 110 licenze, cinquant’anni di monopolio si fanno sentire.
Sul piano dei principi, quella del controllo pubblico delle imprese di stato è una linea del Piave su cui ormai non ci sono più truppe attestate. Le resistenze si sono spostate sul piano degli interessi, massimamente degli interessi locali. Un governo appoggiato anche da Rifondazione Comunista ha privatizzato Telecom in un sol colpo — cosa che non era riuscita neanche alla Thatcher — ma un’amministrazione di destra e decisionista come quella di Milano non ha ancora venduto le farmacie comunali. Per far passare in Senato la legge sui servizi pubblici locali si sono dovuti accettare — imposti da destra come da sinistra — compromessi poco edificanti: come la proprietà pubblica delle reti di acqua e gas, periodi transitori lunghissimi, il permanere di pericolosi intrecci pubblico-privato.
Proprio perché è così difficile e lento procedere sulla strada della liberalizzazione là dove sono in gioco interessi corporativi molto diffusi (è il caso del commercio o delle professioni), proprio per questo è invece necessario procedere con maggiore decisione sugli obbiettivi “grossi”. Che secondo me sono quattro:
- sull’Enel si è concesso troppo: adesso bisogna che la vendita delle centrali sia rapida e totale (e perché non chiedere che sia anche più estesa?): e che non serva all’Enel per formare alleanze transnazionali che potrebbero mascherare accordi sui rispettivi mercati. E finché Enel è sotto controllo pubblico, questo deve far rispettare l’impegno a dismettere Wind;
- nel gas è indubbio merito del ministro dell’Industria Enrico Letta avere dettato condizioni di liberalizzazioni più avanzate: resta il nodo della separazione proprietaria della trasmissione in alta pressione, che però l’Eni avrebbe intenzione di quotare in Borsa. E resta aperta la questione dei contratti take or pay sul metano, in cui la Snam è stata di fatto salvaguardata;
- nelle comunicazioni lo spazio aperto per un’Autorità energica e lungimirante è largamente inesplorato. Solo per fare un esempio: la vicenda dell’Umts dovrebbe essere punto di partenza per introdurre sistemi di assegnazione delle frequenze con un metodo — l’asta — che consente al mercato di scegliere gli imprenditori più idonei;
- restano i trasporti, la desolante eterna storia delle Ferrovie dello Stato: certo qualcosa sembra muoversi, ma è assolutamente troppo poco. Bisogna ribellarsi all’idea che il dissesto economico e l’inerzia siano una condanna biblica. E ci ricordiamo bene di quanto insufficiente sia stato il supporto politico alle iniziative dei vertici dell’azienda.
Perché, infine, le liberalizzazioni sono compito della politica: nel realizzarle, e nel diffonderne la cultura.
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luglio 24, 2000