Recensione di Paolo Valentino
La denuncia di Minogue: l’etica del welfare uccide la libertà
Aveva probabilmente ragione Winston Churchill, quando argomentava che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre sperimentate finora. Ma il grande premier britannico non avrebbe mai immaginato che il suo livello qualitativo sarebbe sceso così in basso, al punto da metterne in discussione le fondamenta. E forse Churchill avrebbe condiviso molte delle critiche incendiarie e delle preoccupazioni, che Kenneth Minogue, professore emerito di Scienze politiche alla London School of Economics, formula in La mente servile. Come la democrazia erode la vita morale, uscito due anni fa in Gran Bretagna e Stati Uniti, ora finalmente pubblicato in Italia da Ibl Libri, con una prefazione di Franco Debenedetti.
Minogue, che intervistai su questi temi per il «Corriere» l’anno scorso, ha bisogno di una piccola introduzione. La sua denuncia del progressismo radicale data infatti dal 1963, quando in totale controtendenza allo Zeitgeist , lo spirito del tempo, mise in guardia dalla «nozione che la storia richieda il perfezionamento della società umana». In The Liberal Mind (disponibile in Italia presso Liberilibri col titolo La mente liberal ) lo studioso ammoniva: «Una popolazione che affidi il suo ordine morale ai governi, per quanto impeccabile la motivazione, diventerà dipendente e servile».
È passato mezzo secolo e Minogue vede avverata la sua profezia. La mente servile , scrive l’autore, è «un’inchiesta sul carattere delle illusioni in politica o almeno nelle moderne democrazie». Il problema di Minogue è molto specifico: «Mentre democrazia significa un governo che risponde all’elettorato, oggi i nostri governanti pretendono che siamo noi a rispondere a loro. Quasi tutti gli Stati occidentali non vogliono che fumi, che mangi alimenti poco sani, che vada alla caccia alla volpe o beva troppo». Ai cittadini viene rimproverato di fare troppi debiti, di essere intemperanti verso persone di altra razza, cultura o religione, di non essere buoni educatori dei figli. Riassumendo, «vivere in una democrazia nel XXI secolo significa ricevere una serie di messaggi “educativi” da parte dell’autorità costituita», che delibera per nostro conto, pretende di dirci come vivere in modo politicamente corretto, vuole risolvere i problemi per noi.
L’interrogativo sollevato da Minogue è inquietante: può la vita morale sopravvivere alla democrazia? Dove per vita morale l’autore intende «la dimensione dell’esperienza interiore in cui stabiliamo quali siano i nostri doveri nei confronti di genitori, figli, datori di lavoro, sconosciuti, organizzazioni di beneficienza, società sportive, realtà che compongono il nostro mondo». Il cruccio dello studioso è che oggi questo elemento della nostra umanità «sia espropriato dallo Stato», producendo un effetto disumanizzante che egli definisce appunto «la mente servile».
Nel racconto di Minogue, nulla ha contribuito di più alla cristallizzazione di questa forma mentis della creazione del Welfare State, frutto dell’idealismo politico, cioè della «convinzione di poter cambiare la società e del dovere politico-morale di farlo per renderla più egualitaria in termini di reddito disponibile e socialmente più giusta». Come scrive Debenedetti nella sua prefazione, «con il welfare, l’individuo si spoglia della responsabilità personale di provvedere come crede al proprio futuro e di assicurarsi contro gli eventi negativi della vita e la delega allo Stato». Assistiamo quindi a una sorta di baratto scellerato e illusorio: meno libertà e meno capacità di giudizio morale in cambio di più diritti per i cittadini. Più potere e competenze invasive in cambio di più oneri, alla lunga insostenibili, per gli Stati.
Minogue non ha ricette, si limita a descrivere una deriva che considera perniciosa e progressivamente distruttiva: «Attenzione, la nazionalizzazione della vita morale è il primo passo verso il totalitarismo». Condivisibile o meno, la sua è l’analisi onesta di un grande conservatore. Il quale però non risparmia nessuno. «L’idealismo politico non è solo di sinistra – aveva detto nell’intervista -, ne esiste anche una versione di destra, che consiglia di concedere più benefit, mentre quella di sinistra pretende di individuare e soddisfare bisogni essenziali. In entrambi i casi, più lo Stato concede, più aumenta il suo controllo. Prenda le università, ben felici in passato di ricevere fondi, espandersi, assumere altri docenti, creare nuovi insegnamenti. Oggi lo Stato le controlla e dice loro che cosa e come insegnare».
Per Minogue, l’idealismo politico, premessa intellettuale dello Stato sociale, è la causa profonda della crisi dell’Europa, che lui riassume nelle tre «D»: debito, demografia, democrazia.
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ottobre 3, 2012