Lo spread? Si riduce con le dismissioni

aprile 14, 2012


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di Lamberto Dini e Natale D’Amico

Caro direttore, in questi giorni i mercati hanno di nuovo dato segnali di sfiducia nei confronti del nostro debito sovrano II famigerato spread (la differenza fra il rendimento dei nostri titoli e quello degli analoghi titoli tedeschi) è tornato a salire. Ciò avviene nonostante le ingenti manone di correzione dei conti pubblici messe in campo nel 2011, specie dal governo Monti, che hanno portato la pressione fiscale su famiglie e imprese a un livello record sia rispetto alla nostra storia passata sia nel confronto internazionale.

A questo punto alla politica economica si impongono due domande: cosa non ha funzionato fin qui? E cosa è ulteriormente possibile fare per evitare l’avvitamento della nostra finanza pubblica e della nostra economia.
Riguardo a quei che non ha funzionato, a noi sembra che ci si sia illusi che due fenomeni transitori potessero produrre effetti permanenti. Il primo fenomeno è stato il ripetuto acquisto di titoli di stato da parte della Banca centrale europea. Acquisto che ovviamente non può spingersi fino a una generalizzata monetizzazione del debito pubblico senza far nascere forti aspettative di inflazione e con esse un rialzo generalizzato dei tassi d’interesse dell’eurozona. Il secondo fenomeno è stato costituito dalle due ingenti operazioni di rifinanziamento delle banche poste in essere sempre dalla Bce. Anch’esso ha determinato un aumento della domanda di titoli pubblici; ma si trattava di un tipico aggiustamento degli stocks: venuti in possesso di una così ingente liquidità, le banche ne hanno reinvestito una parte in titoli di stato, con ciò sostenendone i corsi e facendo calare il tasso d’interesse. Ma una volta compiuto l’aggiustamento, riemerge lo scarso desiderio delle banche di accrescere il proprio portafoglio di titoli sovrani, in particolare di titoli emessi da Paesi che a torto o a ragione vengono considerati a rischio.
Infatti, venuti meno gli acquisti di titoli da parte della Bce e da parte delle banche a ciò spinte dalle eccezionali operazioni di rifinanziamento, i rendimenti che i Paesi più deboli devono offrire sul mercato per finanziare il proprio debito hanno ricominciato a salire. E veniamo al che fare. A noi sembra, come già scritto (Corriere della Sera, 18 luglio e 1 settembre 2011), che solo provando a rendere scarsa la «carta» sovrana italiana sarà possibile farne risalire il prezzo, e quindi abbassarne il tasso d’interesse. Continuiamo a ritenere che il Tesoro dovrebbe essere in grado di annunciare un azzeramento del ricorso netto al mercato da oggi e per sempre (non creare nuovo debito ndr). Il «per sempre» è garantito dal nuovo fiscal compact, dall’inserimento nella nostra Costituzione del vincolo di pareggio di bilancio, e dalle manovre di aggiustamento già realizzate. Il «da oggi», mentre prosegue il percorso che dovrà portarci al pareggio di bilancio, deve essere costituito da un programma di dismissioni di beni di proprietà pubblica che azzeri il ricorso al mercato del Tesoro anche nei due anni che sono innanzi a noi, quando ancora l’andamento di entrate e uscite ordinarie continuerà a produrre un bilancio pubblico in disavanzo e quindi un ricorso aggiuntivo al mercato.
In Parlamento è stato appena presentato un disegno di legge (n. 3236, primo firmatario Lamberto Dini e sottoscritto da 6o autorevoli senatori) mediante il quale si costringerebbero tuffi i soggetti pubblici e tutti i soggetti da loro controllati in via totalitaria a cedere sul mercato gli immobili non strumentali non sottoposti a vincoli ambientali e culturali. Da quello si può partire, e a quello deve far seguito una veloce ripresa delle cessioni di partecipazioni pubbliche non ritenute strategiche.
L’ordine di grandezza delle dismissioni necessarie per compensare il fabbisogno di cassa del Tesoro non è gigantesco, ed è sicuramente alla portata di un governo che faccia dell’azzeramento del ricorso netto al mercato una sua priorità. Spiace che il governo Monti sottovaluti il tema. Che non è solo — val la pena ripeterlo — quello di ridurre il volume del debito, e con esso l’onere per interessi che grava sui nostri contribuenti; ma è quello, ben più urgente, di assicurare al mercato che da ora in poi l’Italia ricorrerà al mercato solo per rinnovare il debito in essere. Temiamo che se il governo non sarà in grado di fornire al mercato questa rassicurazione, sia difficile fermare la nuova tendenza al rialzo dello spread; tendenza in fondo alla quale già si intravede il ricorso al Fondo monetario internazionale e al costituendo Meccanismo europeo di stabilità, con l’evidente ulteriore perdita di sovranità che ne discenderebbe per il nostro Paese.

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