In risposta a Luciano Floridi sulle regole dei social network
La decisione presa da Twitter e da Facebook di bloccare gli account di Donald Trump che, durante l’assedio a Capitol Hill, buttava benzina sul fuoco incitando i suoi sostenitori con la falsa affermazione che le elezioni erano state truccate, ha aperto discussioni e suscitato prese di posizioni.
Per sostenere che gli Stati debbano “riprendersi la sovranità digitale”, ad Angela Merkel bastano poche parole (come quando con il “wir schaffen das” autorizzò l’ingresso in Germania di 2 milioni di siriani). Luciano Floridi, l’illustre filosofo di etica del digitale, lo spiega in un’intervista ad Adele Sarno su HuffPost del 13 gennaio: che si presta a osservazioni anche radicali.
L’infosfera è un fatto nuovo, ma questo non significa che ciò legittimi interventi non conformi ai principi costitutivi di uno Stato, tanto meno quelli dello Stato dove questa storia è iniziata e, proprio grazie a essi, si è sviluppata.
Il primo emendamento alla Costituzione americana recita: “Il Congresso non promulgherà leggi [...] che limitino la libertà di parola, o della stampa [...].” La Corte Suprema l’ha sempre difeso con indefesso, assoluto rigore: non è esagerato dire che questo è il primo fondamento della democrazia americana. Il famoso articolo 230 del Communications and Decency Act del 1996 ha stabilito che nessun fornitore o utente di servizi interattivi debba essere trattato come l’editore di un’informazione fornita da un altro content provider: con questo il Congresso ha voluto favorire lo sviluppo della libertà di parola su internet.
A queste limitazioni costituzionali non devono sottostare i social media, perché sono di proprietà privata: dalle loro private piattaforme possono sopprimere contenuti che il governo non potrebbe censurare. Sempre che lo facciano per decisione autonoma e non come conseguenza di un’azione pubblica: se Facebook e le altre piattaforme avessero rimosso i contenuti per evitare di essere regolamentate, la Corte Suprema indagherebbe se si sia in presenza di un’attività dello Stato o di un ibrido di scelta privata determinata da minacce o offerte pubbliche.
La Corte non ha mai approvato la regola che le affermazioni false non siano protette dal primo emendamento: dare al governo il potere di limitare la parola per ragioni di verità, farebbe temere che possa essere repressa anche la parola consentita, e questo chiama in causa il principio della libertà.
La Federal Election Commission proibisce a cittadini stranieri di dare contributi economici in connessione alle elezioni: ma solo per attività strettamente legate al processo elettorale.
Uno straniero che spende soldi per promuovere o ostacolare un candidato potrebbe minacciare l’integrità delle elezioni; non così uno straniero che discute di questioni di cui si tratta durante le elezioni. Censurarli significherebbe ritenere che i voti possano essere influenzati da una campagna straniera contrari alla sicurezza nazionale: un assunto paternalistico contrario alle ragioni con cui la Corte suprema giustifica la libertà di parola.
Sulle espressioni che incitano all’odio o che sono offensive per gruppi che in passato sono stati vittimizzati, l’attenzione pubblica è estremamente sensibile, una parola fuori posto può rovinare una carriera: ma la Corte ritiene invalide leggi che contengono i termini “oltraggioso”, “insultante”, “spregiativo”. Sono invece i social media che si dànno regole interne contro i contenuti ostili a qualche gruppo. “Può un CEO decidere cosa si possa fare o meno sui social network?” è la domanda (retorica) di Luciano Floridi? Non solo può, ma deve, perché così concorre a proteggere il sacro diritto alla libertà di parola da interventi statali.
I social si sono dati un sistema articolato di norme per stabilire quali contenuti devono essere censurati, in particolare le fake news e gli hate speach. Per esempio Facebook non censura i negazionisti dell’Olocausto, ma li indirizza a siti dove trovano informazioni su ciò che è realmente accaduto. Google ha una politica generale su “incitamento alla violenza”, e così YouTube e Twitter.
Nel caso specifico dei fatti di Washington sono quindi del tutto fuori luogo le accuse di aver censurato le espressioni di un presidente: quando proprio per quelle parole il Congresso ha avviato la procedura di impeachment per “incitamento alla violenza”.
“Serve maggiore controllo”, sostiene Floridi, e indica quattro leve: legislazione, autoregolamentazione di settore, pressione sociale della pubblica opinione, regole di mercato, soprattutto con la competizione. Per la prima leva, la legislazione, la cosa è complicata proprio dalla natura sovranazionale dell’infosfera: per quanto autorevole sia la cancelliera Merkel, nessuno può pensare che negli Stati Uniti vengano accettate norme europee contrarie a un principio Costituzionale che la Corte difende con la sottigliezza che abbiamo visto.
Quanto all’autoregolamentazione, il settore continua a fare investimenti in intelligenza, umana e artificiale, sia per verificare la veridicità delle informazioni, sia per eliminare quelle che incitano all’odio, con risultati imponenti in sé, minuscoli in relazione alla quantità di ciò che passa in rete.
Ci sono però indizi che l’influenza dei social nel formare le opinioni della gente potrebbe essere sovrastimata: uno studio del Harvard Berkman Klein Center (citato da John Thornhill sul Financial Times del 7 Gennaio 2021), sulle presunte irregolarità del voto postale nelle elezioni presidenziali, ha trovato che Rupert Murdoch con la sua Fox News ha avuto un’influenza assai maggiore di Jim Dorsey con Twitter o di Marc Zuckerberg con Facebook; inoltre che molti dei rivoltosi di Washington li avevano già abbandonati per andare su piattaforme e siti alternativi quali Parler, Gab, Telegram e TheDonald.win, o addirittura su VK, il “Facebook russo senza censura”.
In generale si trascura l’interazione tra utenti e piattaforme, che si manifesta ogniqualvolta queste modificano le modalità uso, in particolare per quanto riguarda l’uso dei dati: così la cultura della connettività coevolve con le tecnologie di codificazione.
Quanto alle regole di mercato e alla concorrenza, è verosimile che sia stato un errore consentire a Facebook di acquisire Instagram e Whatsapp, ma errore del regolatore, non dell’acquirente; e comunque, più che un errore, un’interpretazione diversa degli obbiettivi della politica della concorrenza. Diversa, non necessariamente unica e immutabile.
Ed è proprio in termini di concorrenza che la “leva” della legislazione, auspicata da Floridi, mostra i suoi limiti, anzi i suoi pericoli. Egli vorrebbe completare la legislazione GDPR con qualcosa di simile sul 5G, sull’intelligenza artificiale, sui social media: è il progetto di fare dell’Europa una regulatory superpower enunciato da Ursula van der Leyden al suo insediamento.
A parte lo scollamento dal resto del mondo che deriverebbe proprio al settore che non conosce confini, a parte la questione se un mondo siffatto sia propizio al sorgere dell’innovazione, è sicuro che un sistema che sottrae il settore alle forze del mercato, alle preferenze dei consumatori, alla libera discussione tra cittadini e lo sottopone a regole calate dall’alto dal potere dei governi, diminuisce, non aumenta la democrazia.
Quanto più un settore è in rapida evoluzione, tanto maggiori sono le probabilità di conseguenze non intenzionali negative di atti intenzionali. Rimediare agli errori di un manager è facile, a quelli di un’azienda è possibile. Ma prima che un governo riconosca di avere torto, il più delle volte si devono pagare prezzi altissimi. Senza contare il costo opportunità delle occasioni mancate. Noi, sul tema, potremmo scrivere libri.
E poi, proprio la vicenda che ha innescato questa discussione, dovrebbe indurre a non dimenticare che a capo del governo ci può essere un Trump, o, più modestamente, un Salvini.
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Intervista di Adele Sarno a Luciano Floridi – Huffington Post, 13 gennaio 2021
Alternative facts, Fake News, getting to the truth with Information Literacy
University Of Bihac – Bosnia And Herzegovina, 21-22 June 2018
gennaio 22, 2021