Tre anni fa i referendum non erano neppure all’orizzonte: non è quindi ai referendum che pensavo quando scrissi e presentai il progetto di legge sulla disciplina dei licenziamenti. Ed è indipendentemente dall’incombere dei referendum che vorrei, dopo tre anni, rileggerlo.
Che cosa dice in sintesi? In caso di licenziamento per motivo economico, prevede che il lavoratore possa scegliere fra il godimento immediato di un congruo indennizzo ( sei mesi di retribuzione più un mese per ogni anno di anzianità) oppure la permanenza sul posto di lavoro per un periodo corrispondente, oppure, sempre a sua scelta, per un periodo minore con monetizzazione della parte restante.
In ogni caso il periodo di prosecuzione del rapporto, il cosiddetto “preavviso lungo”, non può superare un anno, Per le aziende con meno di sedici dipendenti, preavviso e importo sono dimezzati. Inoltre prevede che la tutela, con termini di preavviso e importo di indennizzo ridotti, sia estesa ai collaboratori autonomi che svolgono la propria attività continuativamente e in via prevalente per un unico committente.
Sostengo che questo progetto non solo è attento ai diritti dei lavoratori, ma anzi che esso offre ai lavoratori tutele maggiori di quelle che hanno oggi.
Prima di motivare questa affermazione, devo fare una premessa: rimane esattamente come oggi il divieto assoluto del licenziamento discriminatorio; esattamente come oggi il licenziamento in tronco è lecito solo nel caso di colpa grave; come oggi, è il Giudice del lavoro a stabilire se c’è stato trattamento discriminatorio – per il quale resta la sanzione di nullità – e se c’è stata colpa grave da parte del lavoratore. Tutto ciò rimane come oggi per la semplice ragione che di queste cose il progetto semplicemente non parla. Dovrebbe – avrebbe dovuto – essere una premessa inutile: chi ha fornito la base teorica e giuridica del progetto è Pietro Ichino, un giurista da sempre vicino al sindacato; e chi l’ha presentato in Parlamento è stato mandato al Senato dagli elettori dell’Ulivo.
Perché sostengo che così si danno tutele maggiori ai lavoratori? Per tre motivi.
Primo: la legge vigente non dà al lavoratore licenziato per motivi economici alcun indennizzo; la mia proposta da un minimo di 6 mensilità ( per un neoassunto) a 36 ( per chi abbia 30 anni di anzianità).
Oggi il Giudice del lavoro, se ritiene non sufficienti i motivi addotti, può ordinare il reintegro del lavoratore ( il famoso art. 18): ma non si può negare che è maggiore una tutela di entità certa e dovuta in ogni caso per legge, piuttosto che una tutela affidata alla decisione che di volta in volta il giudice vorrà prendere. Quando il giudice non ordina il reintegro, e a volte accade, il lavoratore è meno tutelato di quanto preveda il mio progetto di legge; e l’atteggiamento dei giudici, già oggi variabile a seconda delle regioni, potrebbe domani cambiare anche radicalmente.
Secondo: il “preavviso lungo”, un’invenzione di questa legge. Oggi il reintegro, quando viene ordinato, arriva dopo mesi, talvolta anni di forzata inattività e di tormentosa incertezza. Invece io propongo che il lavoratore licenziato abbia fino a un anno di tempo per cercarne un altro stando al lavoro: gli si risparmia il danno psicologico di doversi cercare un nuovo posto da disoccupato, lo si pone in una condizione negoziale più forte. E’ la classica applicazione del principio del “welfare to work” di Tony Blair: un welfare che accompagna il lavoratore, facilitandogli la ricerca di un nuovo lavoro.
Terzo: l’estensione della tutela a chi oggi non ce l’ha, i parasubordinati. La legge Smuraglia, approvata dal Senato ed ora passata alla Camera, è del 30 giugno 1998: la mia di 16 mesi prima.
Ma la migliore difesa della possibilità di lavorare si attua creando lavoro. E sono le imprese che creano lavoro. E’ importante dunque guardare al problema anche dal punto di vista dell’altra parte contraente, l’impresa. Con la mia proposta, l’impresa licenzierà solo se la perdita a cui andrebbe incontro con la prosecuzione del rapporto fosse superiore all’indennizzo. E, siccome può fortemente ridurre la propria perdita se pianifica per tempo le sue esigenze, ha un forte incentivo a praticare il manpower planning, e ad evitare la precarizzazione dei rapporti di lavoro.
Il giudice con la legge attuale può ordinare il reintegro: ma il giudice non può creare lavoro per un’azienda che non ne ha abbastanza; il giudice non può cambiare le caratteristiche professionali di un lavoratore. L’incertezza sui costi del licenziamento induce un atteggiamento iperprudente, quasi timoroso negli imprenditori: e se tutti gli imprenditori sono timorosi e prudenti, come può crescere l’economia? Le aziende devono adeguarsi ai cambiamenti della tecnologia e della domanda: come potranno farlo rapidamente, se il costo e l’incertezza di un procedimento giudiziario frenano e rallentano l’adeguamento del mix professionale?
Io rivendico con forza il carattere autenticamente riformista della mia proposta: perché lascia inalterati i diritti fondamentali, ridistribuisce ed amplia le tutele, promuove comportamenti non opportunistici nelle imprese, crea condizioni che favoriscono lo sviluppo. E’ una proposta profondamente diversa da quella del referendum promosso dai radicali: diversa per ciò che prevede, diversa soprattutto per la logica da cui nasce e che la regge.
Certo, il referendum e la mia proposta entrambi eliminano l’art.18, vale a dire la possibilità che il giudice ordini il reintegro. E allora? Il fatto è che l’articolo 18 non corrisponde più alla attuale struttura produttiva del paese, ad un’economia sempre più basta sui servizi, alle forme che in essa assumono i rapporti di lavoro. Il fatto è che sta aumentando il peso dei contratti di lavoro diversi da quello del contratto a tempo indeterminato: e non solo a causa della rigidità posta proprio dall’art.18. Ciò che caratterizza e qualifica le posizioni culturali e politiche non è il comune riconoscimento dei fatti, ma la risposta culturale e politica che si dà ai fatti: è questa è nettamente diversa.
L’art.18 è diventato oggi anche un ostacolo allo sviluppo di moderne relazioni industriali, e finisce per danneggiare proprio coloro che vorrebbe proteggere.
Il reintegro a seguito di un procedimento giudiziario contribuisce a creare lo stigma che accompagna il licenziamento, non va nella direzione di farne un momento sia pur difficile della vita lavorativa di una persona, ma contribuisce a fare della disoccupazione uno stato di cui un po’ vergognarsi e del disoccupato un lavoratore verso cui si nutre un’ingiusta diffidenza. E’ anche per questo che la disoccupazione italiana, più di quella europea, è disoccupazione di lungo periodo, per cui da noi più che altrove chi imbocca la strada della disoccupazione trova molto difficile uscirne.
Un approccio riformista al problema dei licenziamenti non pensa solo ai divieti ed alle tutele, sa che la vera tutela sta nella crescita della domanda di lavoro. Dirige la propria attenzione non a ostacolare o ritardare ciò che non può alla fine impedire, ma si preoccupa di ridurre i tempi di permanenza nella situazione di disoccupato e a favorirne l’uscita.
Non è una strada originale: è quella che hanno seguito tutti i governi riformisti dei paesi che hanno ridotto la disoccupazione.
gennaio 21, 2000