Liberalizzare: ai governi tecnici non riesce

gennaio 1, 1996


Pubblicato In: Varie


Tra tutte le democrazie europee occidentali l’Italia è quella che ha conosciuto e ancora conosce la più massiccia e pervasiva presenza dello Stato nei settori industriale e creditizio. Logico che le privatizzazioni incontrino particolari difficoltà di ordine politico e tecnico quando dalla generica enunciazione del programma si passa alla sua concreta implementazione.

La prima difficoltà deriva proprio dalla dimensione del problema, sia dei settori da privatizzare rispetto al prodotto interno, sia del debito pubblico al cui abbattimento, in Italia come all’estero, vengono devoluti i proventi delle dismissioni. Stante la dimensione del nostro debito, rispetto alla gradualità esasperante ma inevitabile con cui si risana la finanza pubblica, più che il contributo diretto che le privatizzazioni possono dare al fondo di ammortamento del debito, conta l’effetto indiretto tramite la riduzione del differenziale dei tassi di interesse, grazie alla maggior fiducia dei mercati internazionali. Per avvantaggiarcene, bisognerebbe procedere a tappe forzate, con dismissioni tecnicamente impegnative, avendo riguardo al mantenimento degli impegni annunciati, dimostrando costanza e coerenza nel realizzare i progetti.
La seconda difficoltà sta nell’identificare chiaramente le ragioni delle privatizzazioni: quelle normalmente addotte dai legislatori sono state perlopiù, e non solo in Italia, inadeguate, ambigue e contraddittorie. Inadeguata quella della riduzione dello stock del debito, la cui magnitudine viene appena scalfita dal valore delle attività da dismettere. Ambigua quella di favorire lo sviluppo del capitalismo popolare: infatti la frammentazione della proprietà azionaria nelle mani dei cittadini si accompagna ovunque alla concentrazione dei diritti di voto nelle mani di grandi investitori istituzionali. Ambigua e contraddittoria quella di aumentare l’efficienza delle aziende pubbliche: ambigua perché l’efficienza non deriva di per sé dal cambiamento di proprietà; contraddittoria se usata in congiunzione con l’obbiettivo finanziario, dato che in tal caso lo Stato, per rendere più appetibili le società da dismettere, sarebbe indotto a rendere più sicuri i loro profitti futuri, e quindi a prolungare la rendita monopolistica che cede ai privati.
È invece alla liberalizzazione che, in un ordinamento economico basato sul mercato aperto, l’istituto delle privatizzazioni deve essere finalizzato. Affermarlo limpidamente significherebbe radicare il processo in un terreno solido, aiuterebbe a eliminare ambiguità e incertezze, mobiliterebbe i diritti dei consumatori per fronteggiare le resistenze degli interessi organizzati. «La prima cosa che abbiamo imparato era che dovevamo ignorare completamente i sondaggi di opinione: in quasi tutti i casi di privatizzazione i sondaggi indicavano che la gente era nettamente contraria», ricorda Lord Lawson. Ma questo poteva valere per chi si avventurava su strade nuove, non per gli epigoni che, dieci anni dopo, si possono avvalere della dimostrazione dei positivi risultati conseguiti.
Alle privatizzazioni non resistono solo le tecnocrazie e i poteri, economici e sindacali, con esse coalizzate. Contro giocano anche le riserve sul funzionamento dei mercati mobiliari, sulla reale contendibilità del controllo azionario: riserve non solo espresse da chi alle privatizzazioni si oppone per motivi ideologici, ma condivise anche dall’opinione pubblica moderata. Riserve assai fondate se si considera l’arretratezza delle disposizioni vigenti in materia societaria e fiscale, l’assenza di exit e voice, di doveri fiduciari degli amministratori, di tutela giudiziaria degli azionisti. Di conseguenza, nel nostro paese un vero progetto di liberalizzazione, per essere credibile, non può limitarsi alla sola fornitura di beni e servizi, ma deve investire anche il complesso dei temi che attengono alla corporate governante. La straordinarietà dei poteri che il Tesoro si è riservato nel processo di privatizzazioni poteva essere usata per rimediare ad alcune delle più gravi arretratezze, consegnando al parlamento il compito di adeguare le norme; un’azione concertata e coerente tra Tesoro, Industria e Antitrust sarebbe stata necessaria per ridisegnare gli assetti dei settori, industriali e finanziari, che è il terreno nuovo della politica industriale.
Invece da noi le privatizzazioni sono state iniziate e portate avanti da governi di breve durata, impegnati quale a fronteggiare una crisi finanziaria (Amato), quale a gestire una crisi di sistema politico (Ciampi), quale a superare una situazione di stallo (Dini), mentre l’unico governo non tecnico (Berlusconi) ha ritenuto che altri fossero i prioritari interessi. Solo governi con chiaro sostegno politico e provvisti di un mandato preciso dell’elettorato sono in grado di fare delle privatizzazioni l’occasione per una vera liberalizzazione, che comprenda anche l’aggiornamento delle regole che presiedono al mercato dei diritti di proprietà.
I mercati hanno bisogno di regole, ma è l’adesione degli operatori alle regole che determina la vitalità di un ambiente economico. È necessaria una grande visione politica per sostenere l’impegno a liberalizzare, e una grande determinazione per conquistare il necessario consenso: compiti entrambi preclusi a governi tecnici. A essi non resta quindi che invocare lo stato di necessità, quale si esprime nell’ossimoro della ‘scelta obbligata’. Se cosi dovesse essere anche per il futuro, avremo venduto un po’ di aziende e (forse) qualche banca, ma avremo perso una irripetibile occasione.

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