Al direttore.
Finmeccanica, Salini, Todini, Ansaldo, Eni (possibilmente), Expo, Alitalia (of course), il credito, le fondazioni. Intercettato il “Letta viaggiatore”: “Abbiamo un’altra Cdp!”.
Non basta un road show per privatizzare con successo
di Marco Valerio Lo Prete
Non solo privatizzazioni. Il road show governativo nei paesi del Golfo, iniziato sabato e che si chiude oggi con la tappa in Kuwait, era inteso più in generale per “promuovere la strategia di attrazione di investimenti stranieri”. In questo senso la notizia arrivata domenica scorsa da Etihad, la compagnia aerea con sede ad Abu Dhabi, che ha annunciato di voler decidere entro 30 giorni un eventuale ingresso nell’azionariato di Alitalia, ha certamente ringalluzzito il morale del presidente del Consiglio. Poi ci sono le aziende italiane che investono in loco (con intese in fieri in Qatar per Finmeccanica, Salini-Impregilo, Todini e Ansaldo Breda, e possibilmente l’Eni) e gli accordi in vista dell’Expo di Milano nel 2015. Inoltre nel lungo termine – lasciano intendere alcuni analisti concentrandosi sugli aspetti meno pubblicizzati del viaggio – dagli Emirati potrebbero arrivare le risorse necessarie a puntellare il settore del credito, soprattutto nel caso in cui le fondazioni confermeranno le loro difficoltà ad attuare ulteriori aumenti di capitale.
Attirare gli investitori e farli entrare nel capitale di Poste ed Enav (le cui quote di minoranza saranno presto in vendita, come annunciato all’ultimo Consiglio dei ministri) richiederà settimane e mesi. Eppure Enrico Letta, anche nelle interviste rilasciate ai media locali in questi giorni, non ha smesso di definire “ambizioso” il piano di alienazioni del patrimonio pubblico, sottolineando come – alla luce dei colloqui avuti nei paesi del Golfo – sia emerso che “dopo anni di crisi i mercati sono pronti”. L’idea di cedere asset statali per 10-12 miliardi di euro in un anno, effettivamente, è una novità rispetto alle linee di politica economica degli ultimi anni. Il governo rivendica questa rupture, spiega che l’obiettivo è duplice: migliorare l’efficienza delle imprese coinvolte e cominciare a ridurre il rapporto debito pubblico/pil per la prima volta dall’inizio della crisi. Finora lo scetticismo si è appuntato soprattutto sul primo argomento: è davvero possibile rivitalizzare un’impresa come Poste senza prima liberalizzare tutto il settore in cui opera, e senza un’opportuna divisione delle attività presenti del gruppo (dalle spedizioni all’assicurazione, passando per la banca)? Possibile rafforzare Poste ed Enav se il controllo delle aziende resterà comunque in mano pubblica? Almeno però si risanano le finanze pubbliche, replica qualcuno. Nemmeno questo è garantito, dice invece l’economista Paolo Manasse, che sul tema ha appena pubblicato un saggio sul sito di economisti internazionali VoxEu.org.
Manasse, dell’Università di Bologna, sostiene infatti che le privatizzazioni contribuiscono ad abbattere il debito pubblico solo se rispettano alcune condizioni. Nel suo studio, l’economista fa l’esempio semplificato di un paese (chiamiamolo Grecia) che ha un debito di 100 euro, da onorare pagando 100 titoli di stato del valore di 1 euro e a scadenza annuale. Per ripagare i creditori, il paese ha due fonti di gettito: il settore del turismo (da cui trae 74 dollari l’anno) e la gestione di un porto pubblico (20 dollari). Le entrate attese sono dunque pari a 94, inferiori al debito di 100, e per questo la Grecia – di fatto parzialmente insolvente – decide di privatizzare il suo porto. Secondo i calcoli di Manasse, però, non c’è modo di compensare il flusso di reddito che per lo stato verrà a mancare (cioè i 20 euro annui), a meno che i privati non siano disposti a pagare molto di più del valore attuale garantito dal porto stesso, in media un trenta per cento in più. Ergo: solo se il porto del Pireo viene venduto a 26 euro, invece che ai 20 euro che vale con l’attuale gestione statale, lo stato greco tornerà a essere solvibile. “I privati non compreranno mai a condizioni sufficientemente vantaggiose per lo stato, però, se non nel caso siano sicuri di migliorare in maniera radicale l’efficienza di gestione del porto e quindi di poter estrarre più risorse di quanto non riesca a fare lo stato”, dice Manasse. Se invece la vendita degli asset non dovesse avvenire a condizioni così vantaggiose, “lo stato ridurrebbe semplicemente le sue passività e allo stesso tempo le sue attività, lasciando però inalterate le capacità di fare fronte al suo debito”.
Venendo al caso italiano, l’economista dell’Università di Bologna sostiene che la condizione fondamentale per vendere un’azienda pubblica a un prezzo sufficientemente elevato è “che il governo lasci anche il controllo delle società in vendita. Prendiamo il caso di Poste. Per migliorare in maniera struttuale le proprie finanze pubbliche, e non limitarsi a fare un po’ di cassa nel brevissimo termine, lo stato dovrebbe vendere a qualcuno che preveda di poter gestire il gruppo in maniera molto più redditizia”, e quindi sia disposto a pagare di più. Ciò vuol dire che l’acquirente deve essere in grado di “riorganizzare l’azienda, svincolarsi da eventuali poteri di controllo del sindacato e liberarsi, se lo ritiene, del management scelto dal settore pubblico”. (E a proposito di management, Poste ha appena deciso, alla fine della scorsa settimana, di sostituire Carolyn Dittmeir, dal 2002 direttore del Controllo interno del gruppo, esperta di Internal auditing nota a livello mondiale, con una dirigente interna proveniente dalle Risorse umane, Manuela Gallo. A quest’ultima spetterà dunque di verificare procedure, processi e flussi – anche finanziari – nel gruppo di Massimo Sarmi, alla vigilia del delicato processo di privatizzazione e di quotazione in Borsa).
Il governo Letta, secondo Manasse, non si sta muovendo nella direzione migliore: “Nel caso della privatizzazione di Poste ed Enav, l’esecutivo cerca di attirare gli investitori vendendo loro quote di un monopolio. Per ragioni di cassa di corto respiro, non fa il bene dei consumatori, cioè non liberalizza”. E inoltre, “non riuscirà nemmeno a fare cassa in maniera efficiente, come dimostro nel caso di studio sulla Grecia. Il ragionamento è simile a quello di chi è costretto a vendere la propria casa per estinguere un debito. Alla fine sarà senza debito ma anche senza casa”. Secondo Manasse, le condizioni di mercato per un piano profittevole di privatizzazioni in Italia ci sarebbero: il nostro paese infatti, passata la tempesta dello spread, non è costretto a svendere ma può attendere compratori che puntino a guadagnare dall’efficientamento delle aziende statali. “Invece il governo preferisce vendere quote di alcune aziende, lasciando intendere contemporaneamente che nulla cambierà della governance: per questo tiene per sé la maggioranza delle azioni e addirittura nel caso di Poste vuole offrire azioni gratis ai lavoratori, come a perpetuare lo status quo attuale”, in cui i sindacati pesano molto, conclude Manasse.
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febbraio 5, 2014