di Michele Magno
Al direttore.
Seguo con vivo interesse il dibattito ospitato dal Foglio sul libro di Thomas Piketty. Sebbene non l’abbia ancora letto e non sia un economista, mi consenta lo stesso un paio di considerazioni.
Quello del rapporto tra democrazia e mercato è uno dei temi che suscitano più contrasti nel dibattito politico, e non solo nella riflessione teorica. Certo è che nel tempo è prevalsa la convinzione che l’aumento delle diseguaglianze non sia di per sé un problema, e che il problema vero sia la crescita del pil. Se il pil cresce – si sostiene – le cose vanno bene anche per i meno abbienti, nonostante il ventaglio delle diseguaglianze. Ergo: ciò che conta non è la distribuzione del reddito, ma la creazione per tutti di pari opportunità. Sono abbastanza d’accordo con questa tesi, anche se non mi sfugge che una concentrazione eccessiva del reddito e della ricchezza può paradossalmente ridurre per i gruppi sociali meno fortunati le chance di successo nella lotteria della vita.
E’ bene chiarire, inoltre, che fra le istituzioni del welfare le pensioni non vanno considerate un diritto di cittadinanza. Si tratta infatti di previdenza obbligatoria e quindi di risparmio forzoso, anche se i sistemi pubblici possono implicare una redistribuzione di risorse che va oltre quella tipica dei meccanismi assicurativi. In linea di principio, come suddividere il reddito personale tra consumi e risparmio è una decisione che spetta alla responsabilità di ciascun individuo. Ma, poiché l’esperienza dimostra che questa è difettosa, lo stato costringe i cittadini a premunirsi di fronte ai bisogni e ai rischi che si manifestano nel corso dell’esistenza, anche per evitare che il loro costo ricada sulla collettività. Il caso delle pensioni è il più clamoroso, ma non è l’unico: lo stato rende obbligatorie, ad esempio, anche l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e quella per i sinistri automobilistici.
Leggerò dunque la monumentale ricerca di Piketty – lo confesso – forte di un radicato “pregiudizio”: quello secondo cui i diritti sociali, anche nella loro espressione monetaria, sono sempre delle conditional opportunities. La loro esigibilità dipende costantemente, in misura che non ha confronto con i diritti civili e politici, dalle risorse create dal mercato e dai rapporti di forza che emergono conflittualmente nella società. Possiamo anche tuonare contro gli speculatori, contro una finanza sregolata, contro i superbonus dei manager e contro un capitalismo rapace. Ma la crisi di questi anni ci obbliga a fare nuovamente i conti con questo fatto. E i fatti, come noto, hanno la testa dura.
maggio 1, 2014