Recensione a
“La quarta evoluzione”
di Luciano Floridi
Editore Raffaello Cortina
304 pp.
Non inganni il titolo. Nella sterminata letteratura sulla società digitale, “The 4th Revolution” è un libro diverso, fin da quel 4 nel titolo che sembra fare il verso a tutti i 3 e 4 che ricorrono nelle periodizzazioni storiche. Diverso perché diversa è la storia, perché a scriverla non è uno scienziato o un tecnologo, un micro- o un macroeconomista, un finanziere o un sociologo, un politico o uno scrittore di fantascienza, ma un filosofo. E al filosofo quello che interessa è l’uomo, e quello che l’uomo pensa, di se stesso e del mondo in cui vive.
La scienza, questi pensieri ha il potere di cambiarli radicalmente. Accadde una prima volta con Nicola Copernico: il De Revolutionibus orbium coelestium spostò dal centro dell’universo la terra, e quindi anche il nostro posto e il nostro ruolo. Da allora la parola rivoluzione iniziò ad essere associata a scoperte scientifiche. La seconda fu con Charles Darwin: se tutte le specie sono evolute nel tempo da antenati comuni attraverso la selezione naturale, noi non siamo più al centro del regno biologico. Ci eravamo appena consolati pensando di avere pur sempre una posizione centrale nello spazio della nostra vita mentale, quando Sigmund Freud mostrò che molto di ciò che facciamo è inconscio, e che la mente conscia sovente costruisce narrative per giustificarlo. Dalle spiegazioni psicoanalitiche come da quelle delle moderne neuroscienze, sappiamo che siamo lungi dall’essere menti cartesiane trasparenti a noi stessi. Ci restava la posizione, unica e privilegiata, nel campo del ragionare logico, del trattamento delle informazioni: finché, con Alan Turing, “computer” perse il suo significato antropologico, e prese a indicare una macchina generica e programmabile, la “macchina di Turing” appunto. E’ la quarta rivoluzione: una migrazione epocale dell’umanità dallo spazio fisico newtoniano ad un nuovo ambiente in cui esso viene inglobato, la infosfera. Non siamo dei Robinson Crosue sull’isola, ma organismi informazionali (inforg) connessi e immersi in un universo informazionale che condividiamo con altri agenti informazionali, naturali e artificiali, autonomi nel processare logicamente informazioni. Noi siamo l’ultima generazione a percepire la differenza tra i due mondi, quello fisico e l’infosfera: per le nuove generazioni, questa differenza non è più sostanziale ma solo di prospettiva.
Questa è la tesi dell’autore: collocata al centro del libro è punto d’arrivo di un’analisi dei cambiamenti portati dalle Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (ICT nel seguito), e punto di partenza di una riflessione su conseguenze dibattute, dalla privacy all’intelligenza artificiale, dai rapporti sociali a quelli politici. “A volte – scrive Floridi nella prefazione – è il 16 Dicembre 1773 e sei a Boston; oppure è il 14 Luglio 1789 e sei a Parigi. […]; a volte è un nuovo millennio e sei nell’infosfera”. E’ allora che abbiamo bisogno di “prendere a bordo” la filosofia: per comprendere la natura dell’informazione; per prevedere e gestire l’impatto etico dell’ICT su di noi e sul nostro ambiente; per migliorare le dinamiche economiche, sociali e politiche dell’informazione; per dare un significato alla situazione in cui viviamo. Non è qui che cercheremo risposte a temi quali la proprietà intellettuale, il potere dei giganti di Silicon Valley, i loro regimi fiscali, la web tax, le fake news, le cyber war: l’obbiettivo è fornire il sistema storico, logico ed etico in cui inquadrarli. Un obbiettivo ambizioso, perseguito con geometrica chiarezza, un procedere rigoroso in cui gli argomenti si susseguono inanellati l’uno all’altro. Nella sintesi che segue si sono ampiamente usate le parole stesse dell’autore: nella preoccupazione di ricostruire fedelmente logica e semantica del libro, nella convinzione che sia miglior modo di suscitare il desiderio di leggerlo.
Punto di partenza sono due costrutti, l’iperstoria e l’infosfera. La gran maggioranza di persone oggi vive storicamente, in società che si basano sulle ICT per salvare, trasmettere e usare dati; e altre che vivono iperstoricamente in società in cui le ICT sono non solo importanti, ma essenziali per consentire la crescita, personale e sociale. La legge di Moore, la crescita del numero di oggetti connessi, i big data che aumentano 4 volte ogni 3 anni, indicano che quello che stiamo vivendo è il passaggio da una società di utenti a una di dipendenti da ICT. L’iperstoria è una nuova storia nello sviluppo umano, ma non trascende le limitazioni spazio-temporali che hanno finora regolato la nostra vita. Domanda: che sorta di ambiente iperstorico stiamo costruendo?
A differenza delle tecnologie del mondo storico, dall’ascia al motore, le tecnologie dell’ICT non hanno bisogno dell’uomo per esistere e crescere: la società iperstorica di agenti intelligenti ed autonomi non necessariamente deve essere umana. È l’infosfera, un concetto che può denotare l’ambiente di tutte le entità informazionali, con relative proprietà, processi, relazioni reciproche; ma che può anche essere sinonimo della realtà interpretata informazionalmente: tutto il reale è informazionale e tutto l’informazionale è reale; i dati e i programmi, secondo una delle più profonde intuizioni di Turing, sono digitalmente indistinguibili. A cambiare giorno dopo giorno, è la prospettiva tra storico e materiale, ed iperstorico e informazionale. Gli oggetti vengono dematerializzati, il diritto d’uso è almeno tanto importante quanto il diritto di proprietà. I beni informazionali, non rivali, non escludibili, a costo marginale nullo, vengono considerati come beni pubblici gratuiti, modello Wikipedia. Nessuno penserebbe di pagare per un account e-mail, e chi copia musica non pensa di “rubare un CD da un negozio”, al massimo si sente come chi scatta una foto in un museo dove è proibito farlo. Con il cloud computing il possesso fisico dai dati (del provider) è disaccoppiato dalla proprietà (dell’utilizzatore): tant’è che è possibile assicurare un computer, non i dati che contiene:
E noi, chi siamo, chi diventiamo, chi potremmo essere passando del tempo nell’infosfera?
Il sé è un sistema informazionale complesso, fatto di attività consce, di narrative, di memorie: le ICT possono modificarlo profondamente. Ad esempio con la memoria, con le quantità, disponibilità, accessibilità della memoria, e la possibilità di ripeterla: le nostre madeleines sono digitali. Oppure attraverso il canale sociale: se gli altri pensano che tu sia sicuro di te, e tu vuoi dimostrare a loro che lo sei, è facile che tu pensi di esserlo, e quindi che lo diventi: l’ITC , dice Foucault, è una tecnologia del sé. O ancora, trasferendo all’infosfera lo sguardo, l’atto di guardarsi nello specchio, di immaginare come si è visti dagli altri, di costruire un’identità virtuale attraverso la quale afferrare la propria personale identità: non più “chi sono io per te?” ma “chi sono io online?”
Per gli apocalittici tutto questo produce individui egocentrici e narcisi, che vivono in bolle virtuali, che non si confrontano con nulla che sia autentico, che non sentono nulla che duri più di un tweet. Dimenticano che anche quello che consideriamo naturale è un artefatto culturale, che i social sono anche una grande opportunità per costruire se stessi, che è molto più difficile mentire su se stessi quando sono centinaia di milioni quelli che ci stanno a guardare.
La società iperstoriche hanno visto la maggiore crescita delle conoscenze nella storia dell’umanità: ma come trasformarle in interazioni pedagogiche?. “Come” insegnare è facile, anche per la formazione le ICT consentono la personalizzazione per milioni. La vera sfida è “che cosa” mettere nel programma didattico. Nelle ICT society, poiché l’informazione è a distanza di un click, si privilegia il “sapere come” rispetto al “sapere che”: ma così si promuove una società di utilizzatori e di consumatori, invece di una di designer e di produttori.
Il problema è: quali abilità dobbiamo privilegiare e insegnare ai futuri progettisti dell’informazione? La risposta è ovvia: i linguaggi in cui l’informazione è creata, manipolata, acquisita e consumata. Cioè fornire, fin dagli stadi iniziali della formazione, competenze in tutti i linguaggi naturali e artificiali necessari, per comprendere criticamente l’informazione disponibile, crearne di nuova e condividerla con gli altri. E invece ITC è formidabile nel rendere l’informazione disponibile, meno nel renderla accessibile, ancor meno nel farla usabile.
Viste le trasformazioni operate dalle ICT – da storia a iperstoria, da ambiente a infosfera, da sé a esperienza online –, individuatene le radici nella quarta rivoluzione – vale a dire nel profondo cambiamento filosofico di come noi vediamo il nostro posto nell’universo -, Floridi ha predisposto quadro concettuale ed attori per analizzarne e discuterne le conseguenze: sulla protezione della nostra individualità, sui rapporti con gli altri abitanti dell’infosfera, sull’organizzazione della vita pubblica.
Se la persona è costituita dalle sue informazioni, la violazione della privacy è un’aggressione alla personale identità, e il diritto alla privacy è un diritto alla personale immunità. Attiva, perché prendere, conservare, manipolare la privacy equivale a rubare o clonare l’identità personale; passiva perché obbligare ad acquisire dati non voluti è un’alterazione dell’identità senza consenso. L’informazione è mia nel senso del mio corpo e dei miei sentimenti, non in quello della mia auto; è un’appartenenza costitutiva, non una proprietà esterna. Quindi è illegale commerciarla, così come è illecito commerciare propri organi o schiavi; ed è illegale esporre al rischio che ne venga sovraimposta una dall’esterno, come potrebbe succedere con la pornografia. Mentre è inutile e antistorico l’approccio burocratico: da proteggere sono i dati costitutivi del nostro io, non le etichette che ci vengono apposte, nome e cognome, codice fiscale.
Con la quarta rivoluzione le ICT diventano più intelligenti e noi più stupidi? Quanto a noi, sarebbe come incolpare l’auto per la nostra obesità; quanto alla tecnologia, quella attuale è incapace di processare qualsiasi informazione di qualche significato, è chiusa alla semantica, cioè all’interpretazione e al significato dei dati processati. Se si tratta di tradurre, codificare e decodificare, modificare secondo certe regole le tracce di dati non interpretati, i computer hanno sovente successo: ma non sono capaci di riconoscere gli aspetti semantici delle entità in gioco e delle loro relazioni. Come fanno i dati ad acquisire significato? AI vince tornei di scacchi: ma non ha costruito i computer e non gli ha insegnato come vincere sugli umani; batte e precede l’intelligenza umana in un crescente numero di casi: ma quanto a implicazioni filosofiche è desolatamente noiosa. Le ICT non diventano più intelligenti né noi più stupidi: quello che è in corsa è un adattamento del mondo alla capacità limitate delle ICT, che ci assicuri di poter interagire con loro con successo.
Un mondo ICT-friendly lo è anche per noi umani, che così consentiamo a macchine sostanzialmente stupide di gestire il mondo in modi apparentemente sensati. D’altra parte è segno di intelligenza fare lavorare gli stupidi. Già ci sono i “compagni artificiali”, i corrispondenti delle Barbie per i piccoli e dei pesci rossi per gli anziani; ci sono anche gli aiuti alla memoria, i depositari delle informazioni dei suoi proprietari. Riceveremo alla nascita un compagno artificiale che memorizzerà tutta la nostra vita, con cui si potrà interagire anche dopo morto, con un delicato equilibrio tra arte di dimenticare e processo di perdonare?
Cambierà il web, sarà una piattaforma che abbraccia tutte le macchine e le applicazioni, i dati sempre aggiornati provenienti da fonti multiple, restituendo dati e servizi in una forma che possa essere usata da altri, creata da macchine semantiche per macchine semantiche: perché l’uomo è l’unica di questo tipo a disposizione. La quarta rivoluzione riguarda la riconferma della natura dell’umanità nell’universo; la questione filosofica evocata dalle ICT riguarda la reinterpretazione di chi siamo e come interagiamo l’un l’altro. Gli agenti artificiali, compagni artificiali, sistemi basati su software, quando diventeranno commodities come le auto, produrranno un’evoluzione della nostra conoscenza di sé: è un’opportunità unica di sviluppare un nuovo approccio ecologico alla realtà.
Le società preistoriche sono senza ICT e senza Stati: le ICT, fin dall’invenzione della scrittura, hanno fornito l’infrastruttura che ha permesso la formazione di città, regni, stati sovrani, organizzazioni intergovernative. Oggi staccarci dalle ICT vorrebbe dire spegnere il mondo: siamo diventati iperstorici per necessità. Gli Stati come li conosciamo nascono con il trattato di Westphalia, sistemi capaci di tenere insieme e influenzare tutti gli agenti che stanno nei loro confini geografici: spazi fisici e legali sono sovrapposti. Gli Stati promuovono lo sviluppo delle ICT come mezzo per mantenere forza legittima, potere politico, controllo sociale. La successiva evoluzione, dal laissez-faire allo stato bismarckiano, richiede uno sviluppo delle ICT che porta alla fine dello Stato come unico agente informativo: altri agenti informativi possono determinare decisioni politiche, e spostare l’equilibrio dal governo centralizzato a una governance distribuita coordinata internazionalmente. Le società iperstoriche sono postwesphaliane perché è lo Stato è il moderno agente informativo; sono post –Bretton Woods perché sono non statali quelli che emergono come agenti dell’economia e della politica.
Lo sviluppo delle ICT produce una tensione tra potere (informazionale) e forza (fisica). Tutti i beni, a incominciare dalla moneta, diventano dipendenti dall’informazione. I confini nazionali diventano porosi, si creano zone dell’infosfera sostanzialmente fuori dal potere dello Stato. All’esterno viene riconosciuto internazionalmente il ruolo di altri agenti informazionali, il settore privato, i partner sociali ed economici, compresi i sindacati, la società civile. All’interno, le ICT cambiano anche il discorso democratico, non solo per le forme di democrazia diretta che accompagnano quella rappresentativa, ma nel senso di una democrazia massmediatica, con aggregazioni su interessi condivisi e l’influenza delle indagini demoscopiche. Le crisi finanziarie e sociali che stanno attraversando le moderne società dell’informazione sono un penoso ma ancora pacifico prezzo che paghiamo per adattarci ad un sistema postwestphaliano. Anche i conflitti armati hanno acquisito, nell’iperstoria, una nuova natura informazionale. C’era analogia tra le guerre di trincea e le linee di montaggio, tra forza lavoro e forza di combattimento; nella guerra fredda i conflitti asimmetrici erano parte della trasformazione post-industriale. Nelle società iperstoriche, dopo terra mare e cielo, è l’infosfera la nuova dimensione dei conflitti tecnologici: dopotutto computer, internet, GPS, droni sono stati tutti inizialmente sviluppati come armi. Tenuto conto della crescita esponenziale di armi e strategie basate sulle ICT, dovremmo collaborare nella identificazione e soluzione dei problemi etici e giuridici delle guerre cibernetiche, come è stato fatto per le armi chimiche, batteriologiche e, parzialmente, nucleari.
Nella filosofia antica c’è poco spazio per la tecnologia. Quella moderna è anche una filosofia meccanica, come in Hobbes; di meccanismi dinamici, come in Hegel e Marx; oppure una critica della cultura meccanica, come in Heidegger, Foucault e Lyotard. A segnare quella contemporanea sarà la pervasiva presenza di un modo informazionale di pensare, un modo di concettualizzare noi stessi, il nostro mondo, la nostra cultura, non più in termini storici e meccanici, ma iperstorici e informazionali. Fino a poco fa l’interfaccia uomo-macchina delimitava il confine, oggi le interfacce sono la nostra seconda pelle: ci siamo spostati dentro l’infosfera, incominciamo ad accettare il virtuale come parzialmente reale e il reale come parzialmente virtuale. Si comprende la società dell’informazione come una società neo-manifatturiera in cui le materie prime e l’energia sono sostituite dai dati e dall’informazione, il nuovo oro digitale e fonte di valore aggiunto. Sarebbe un grosso guaio se non prendessimo seriamente il fatto che noi stiamo costruendo il nuovo ambiente fisico e intellettuale in cui abiteranno le generazioni future. Probabilmente ci vorrà del tempo e una nuova forma di educazione e di sensibilità per rendersi conto che l’infosfera è uno spazio comune, che deve essere preservato nell’interesse di tutti.
Guarda la pagina originale pubblicata su Il Foglio
gennaio 16, 2018