Le tre libertà. Chi paga di più il compromesso

febbraio 3, 2009


Pubblicato In: Giornali, La Stampa

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Caro Direttore,

per trovare basi razionali alla discussione sui limiti da porre alle intercettazione per evitarne gli abusi, Luca Ricolfi, sulla Stampa di sabato, riconduce il problema a quello di trovare una soluzione ottimale che tuteli “le tre libertà che ci stanno a cuore, non essere spiati, venire informati, essere sicuri”. Soluzione ottimale e dunque non assoluta, tra esigenze tutte legittime.


Un compromesso cioè, non diverso da quelli che a ogni passo ci propone la vita associata: a incominciare da quello fondamentale, tra la mia libertà e quella degli altri, tra libertà e eguaglianza, tra governabilità e rappresentanza, tra proprietà privata e interessi collettivi ecc. Anche gli attacchi dell’11 Settembre hanno fatto pagare un prezzo pesante alla nostra libertà di movimento, oltre che alla nostra privacy: ma ci siamo adattati comprendendone l’inevitabilità.

Allora la domanda da porsi non è “se” il compromesso, ma “quale “ compromesso. Se esso è equo ed equilibrato: equo nel prezzo che fa pagare, ed equilibrato in come lo ripartisce tra i soggetti interessati. Mentre non facciamo fatica a riconoscere che il mio diritto alla privacy é “ontologicamente” in conflitto con il diritto degli altri di essere informati, e con l’esigenza di disporre di mezzi di indagine intrusivi e segreti, ciò che fa discutere è la sensazione che il compromesso comporti un costo aggiuntivo rispetto a quanto sarebbe logico attendersi.

Che cosa è infatti che chiede un sacrificio alla nostra privacy, il “normale” diritto all’informazione, o il vedere stampati sui giornali casi che poi risultano o relativi a persone estranee a fatti penali o a fatti senza rilevanza penale? Si vorrebbero consentire le intercettazioni quando il PM ha indizi di colpevolezza e non solo di reato: ma anche a un profano questo appare una petizione di principio, dato che sarebbe consentito intercettare solo quando già si disponesse dei risultati per cui si chiede di intercettare. Chiediamoci: una così drastica limitazione verrebbe proposta se non fosse invalsa la pratica della cosiddetta “pesca a strascico”, cioè intercettazioni fatte nella speranza di trovare un reato? Quale sarebbe il numero dei tabulati in circolazione se tutti i PM conducessero inchieste alla De Magistris, chi catturerebbe i malavitosi se tutti i PM seguissero piste alla Woodcock? L’anomalia è resa evidente dalla statistica, e Ricolfi la usa da par suo: le intercettazioni non sono uniformemente distribuite nel Paese, e la loro incidenza sui reati “intercettabili” è abnorme. L’obbligatorietà dell’azione penale è tutela al nostro diritto di essere informati: si discuterebbe di come regolarla, se essa non fosse addotta per giustificare indagini su fotografi e vallette, o sugli svaghi sessuali delle progenie di famiglie che regnarono?

Se il prezzo del compromesso appare elevato, non è per ragioni oggettive, l’evoluzione sociale, economica, culturale del Paese, o per la sua contingente situazione politica. Lo è per eccessi ed errori di certi magistrati, e per l’incapacità di correggerli o contenerli da parte degli organi di autocontrollo della magistratura. E allora, se il compromesso costa un quid in più rispetto a quanto in base a logica e a comparazioni parrebbe logico attendersi, perché a pagarlo vengono chiamati solo i cittadini e non anche i magistrati? La loro indipendenza è un bene prezioso: ma ciò che Ricolfi scrive sui necessari compromessi tra libertà tutte ugualmente legittime, riguarda anche i tempi e modi del loro lavoro, la qualità delle loro sentenze, le necessaria priorità nei reati che perseguono.

Se ora la politica richiede ai cittadini un compromesso costoso per le loro “tre libertà”, ciò dipende anche e soprattutto dal fatto che là dove di queste cose si decide, e cioè nel CSM, prevalgono le forze che tendono a spostarne il costo più sui cittadini che sui magistrati. Se abusi e lentezze persistono, non basta indicarli con toni ad ogni apertura di anno giudiziario più forti: è il sistema di premi e punizioni adottato dal CSM che va rivisto. E poiché le riforme dovrebbero guardare non solo ai fenomeni contingenti ma alle loro cause, se è necessario allineare gli interessi dei magistrati a quelli dei cittadini, si deve arrivare alla conclusione che è necessario modificare i criteri con cui quel consesso viene composto.

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