Il viaggiatore che, sceso dall’aereo a Londra di prima mattina mercoledì 18 settembre 2019, avesse preso la sua copia del «Financial Times», avrebbe strabuzzato gli occhi: su una copertina giallo canarino, a caratteri cubitali, come il famoso “Fate presto” del «Sole 24 Ore”, solo un titolo: “Capitalism. Time for a reset”. Reset si traduce con ripristinare o con azzerare: per ripristinare il capitalismo, sostiene l’editoriale all’interno, bisogna azzerare la dottrina dello shareholder value e adottare i princìpi dello stakeholderism e degli investimenti Esg (Environmental, social and governance). È un esplicito cambio di paradigma di governo societario: rinnega il principio reso popolare da Milton Friedman, per cui una e una sola è la responsabilità sociale dell’impresa: fare quanti più profitti possibile, purché «nel rispetto delle regole fondamentali della società, sia quelle incorporate nelle sue leggi, sia quelle dettate dai suoi costumi etici».
L’impresa è l’unità base nella nostra società: ha la responsabilità di produrre beni e servizi che la società desidera e di venderglieli con profitto. Fare profitti è il suo impegno etico, e lo shareholder value è la metrica con cui misurarlo. Invece lo stakeholderism richiede di scegliere tra le varie constituency – dipendenti, fornitori, clienti, ambiente esterno – in base a criteri arbitrari che sovente finiscono per essere dettati dalla politica.
Le riflessioni raccolte in questo libro nascono da quella che a chi scrive sembra una contraddizione che la latitudine semantica del verbo reset consente: tra critica di quanto vada «rimesso a posto» in una società capitalistica, o anche in tutto l’Occidente, e «azzerare» il modo di funzionare delle società per azioni. Il capitalismo è sotto accusa: eppure in poco più di un secolo la percentuale di persone che viveva in condizioni di estrema povertà è passata dall’85% al 4%; il 40% dei bambini moriva prima del quinto annodi età, oggi solo uno su 25; nel tempo della mia vita la popolazione del mondo è cresciuta più di tre volte e il Pil pro capite è passato all’incirca da 3mila a 15mila dollari.
Cambiando livello, passando dalla società civile alla società per azioni, per quale motivo le cose dovrebbero andar meglio se creare la ricchezza della nazione non fosse responsabilità delle Spa? Che cosa supporta la convinzione che i grandi problemi sistemici – della crescita, della distribuzione della ricchezza, della formazione, del welfare, della cura dell’ambiente – abbiano origine proprio nelle società per azioni e poi si aggreghino a livello della società in senso lato?
Ci deve essere, sostengono alcuni, una causa generale e strutturale se qualcosa è andato storto, se si è verificata una distonia tra il funzionamento delle imprese e quello del mondo che esse stesse hanno costruito: questa causa sarebbe l’obiettivo che esse perseguono. Basterebbe che le imprese cambiassero la loro funzione obiettivo, perché riprendessero il compito di creare innovazione e ricchezza, in modo virtuoso.
Questo libro vuole essere la contestazione a quanti considerano il mercato capitalistico, di cui magari sono parte attiva, corrotto e da modificare, incominciando dall’istituzione che ne è l’unità base, la società per azioni. Fare profitti. Etica dell’impresa non è un paradosso per polemizzare con costoro; è un richiamo al ruolo fondamentale e insostituibile delle società per azioni, e insieme un monito perché chi le gestisce sia sempre consapevole di questa responsabilità. È la società per azioni che investe, perché ha fatto profitti o perché pensa che ne farà, che chiude il circolo risparmi-investimenti, che riduce le diseguaglianze, quella dove si attua il processo di trial and error che produce innovazione, quella su cui contiamo per la grande redistribuzione con cui usciremo dalla crisi pandemica.
Restano quelli che, con la scusa del reset del capitalismo, vorrebbero incidere radicalmente sul sistema delle società per azioni: altrove sono i Jeremy Corbyn, le Elizabeth Warren, e, come si vede, non praevalebunt, Da noi invece sono quelli per cui tutto è colpa del neoliberismo, è il dilagare del vecchio vizio statalista, è la disfunzione dell’amministrazione, mai tanto evidente come nel diffondersi del virus. C’è tanto da fare, non c’è dubbio: magari scrivere un libro.
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aprile 13, 2021