I debiti eccessivi, si sente dire, che siano conseguenza di scalate a debito, o che siano il risultato di fusioni con partner indebitati, pregiudicano il futuro dell’azienda. Le aziende, si sente pure dire, in cui la struttura proprietaria è congegnata in modo da consentire il controllo a una minoranza, tendono a essere meno efficienti di quelle dove ogni azione dà diritto a un voto: la scatole cinesi sono da evitare.
Lo si dice a proposito di Telecom, di Telefonica, di Telco: ma non fa notizia. Fa invece notizia che lo si dica riferito alla Cina e a due fatti recenti. Il primo ha per protagonista il sindacato: gli operai della Cooper Chengshan Tire Factory, nella provincia di Shandong, hanno scioperato per tre mesi contro la progettata acquisizione della capogruppo Cooper Tire and Rubber Company dell’Ohio da parte dall’indiana Apollo Tires, un’operazione da 2,5 miliardi di dollari che creerebbe il settimo gruppo mondiale del settore.
Il secondo ha per protagonista la Borsa. Alibaba, il gigante cinese dell’e-economy, l’analogo di e-Bay e di Amazon, vuole quotarsi ma senza perdere il controllo. Immagina, quindi, un patto statutario che dia ai fondatori il diritto di nominare il board, e quindi la possibilità di controllare l’azienda con poco capitale. La Borsa di Hong Kong rifiuta: anche se il piatto è plurimiliardario, resta fedele al principio “un’azione, un voto”. Allora Alibaba va a New York, dove invece è ammesso che ci possano essere azioni con diversi poteri di voto. Lì si chiamano classe A, B, C; da noi scatole cinesi, ma il risultato è identico.
Anche in Italia, che si tratti di telefoni o di turbine, di aerei o di treni, i sindacati schierano l’artiglieria contro i cambiamenti di proprietà in generale e contro la vendita agli stranieri in particolare.
Colpisce che in Cina si protesti contro un’operazione tra indiani e americani. Colpisce che l’argomento dell’indebitamento dell’acquirente venga usato negli stessi giorni, da noi nel settore alquanto soft della telefonia, in Cina in quello decisamente hard degli pneumatici. Anche in Italia la quasi totalità delle imprese italiane quotate ha a monte strutture di scatole cinesi, a volte plurime matrioske. Anche in Italia occupano scaffali i libri che dimostrano come questo sistema nuoccia all’efficienza dell’impresa, alla sua capacità di raccogliere capitali, e favorisca la permanenza di un capitalismo relazionale, causa a sua volta di tanti nostri mali. Colpisce che proprio il Financial Times, che abitualmente non manca di bacchettarci proprio per questo, ne dia notizia in un editoriale, in cui cautamente ammette che in fondo, dopotutto, in certi casi, magari nelle nuove aziende cresciute su un’innovazione, consentire il controllo a una minoranza di azionisti potrebbe anche avere i suoi vantaggi.
Tutto sbagliato, quindi? Sbagliato accusare i sindacati (e tanta opinione pubblica, e tanti giornali, e tanta politica) di creare un clima percepito come ostile da chi vorrebbe investire in Italia? Sbagliato accusare il Governo di fare la stessa cosa dimostrando che da noi non vale la rule of law, perché le leggi (vedi quella sull’Opa) si possono modificare in corsa, e la golden rule si può applicare secondo convenienza? Se si fa in Cina e si fa a New York, perché non da noi?
La differenza c’è. È quella tra la regola e l’eccezione, tra il morso dell’uomo e quello del cane. La Cina, per gli occidentali che vi vogliano investire, presenta barriere linguistiche, culturali e legislative, ha un centro statalista che magari usa gli scioperanti di Shandong per dare un segnale all’India: ma è un immenso mercato aperto per chi vuole vendere, conveniente per chi vuole produrre. Negli Stati Uniti immenso è il mercato finanziario e chi vuole investire trova dovizia di strumenti tra cui scegliere.
Ma soprattutto la differenza è di cultura: tra Paesi in cui prevale quella di cercare di estrarre rendite – i lavoratori dalle istituzioni del welfare, insider contro outsider, la finanza dal beneficio privato del controllo, chi gode di buone relazioni contro chi non le ha – e Paesi invece in cui la gente si mette in gioco sul mercato, fiduciosa di trovare nell’intelligenza del mercato la remunerazione dei propri investimenti, umani e finanziari.
ottobre 21, 2013