Salvare il maggioritario. Dopo il rovescio del referendum, dovrebbe essere questo l’obiettivo primario di Renzi. Nel suo progetto, le due riforme, costituzionale ed elettorale, erano tutt’uno: con la prima, superare i governi di coalizione e conferire maggior potere al governo sostenuto dalla sua maggioranza; con la seconda, consentire agli elettori di determinare la formazione di una maggioranza parlamentare. Tutt’uno lo erano anche per gli avversari, che all’uopo si erano inventati il famigerato “combinato disposto”.
Poi, sia per lo spostamento in avanti del termine datosi dalla Consulta per il suo giudizio, sia per il sempre più evidente carattere tripartitico dell’offerta politica, sia per le tensioni della campagna elettorale, i due temi si sono divaricati. Ora che un’idea di Paese è stata bocciata, la possibilità di incidere sulle disfunzionalità del meccanismo politico sta tutta nella riforma elettorale in senso maggioritario.
Il proporzionale, secondo Massimo Saverio Giannini, capo di gabinetto del ministro della Costituzione Pietro Nenni, avrebbe dovuto essere applicato solo la prima volta. E invece sono seguiti 70 anni di governi fatti e disfatti in Parlamento; governi deboli perché alla mercé dei micrometrici spostamenti di rapporti tra correnti di partito (e degli interessi che essi sostengono), governi precari perché durati in media poco più di un anno. Se essenza della politica è prospettare un futuro e disegnare le condizioni per realizzarlo, è necessario abbandonare l’idea di una democrazia che si concreta nella mera rappresentanza, nella riproduzione fotografica del proporzionale, e accogliere invece il principio democratico per cui la minoranza controlla ma la maggioranza decide.
Sono in tanti a volere il proporzionale: in quello che era il centrodestra, perché tutti vogliono potersi contare, tutti vogliono avere un posto al tavolo politico, in tutte le combinazioni attuali e in quelle che eventualmente si formerebbero se a qualcuno convenisse. I 13 milioni di Sì al referendum indicano che il Pd è la sola forza politica – almeno fin quando si scrive – solida: potrebbe dare le carte, non fosse per quanti al suo interno vorrebbero smontare le non molte cose buone fatte da Renzi: Jobs Act, banche popolari, contratti di lavoro. E, pur di opporsi, tifano per il proporzionale, incuranti di disperdere al vento l’esperienza dell’Ulivo e quella vocazione maggioritaria che del Pd è costitutiva fin dalla sua fondazione. La pulsione autodistruttiva nei momenti critici la sinistra non se la fa mancare mai.
Per non consegnare il Paese alle forze populiste in Italia non si può (più) contare sull’alleanza tra centrodestra e centrosinistra, come in Germania, né su l’esprit républicain al secondo turno, come in Francia. Matteo Renzi aveva cercato di eliminare l’antiberlusconismo come categoria della politica; poi le cose sono andate storte e restano i solchi che esso ha scavato nel campo. Quindi il ballottaggio va eliminato: questo non vuol dire tornare al proporzionale. Le preferenze di chi scrive (e ne ha già scritto su queste colonne) vanno al maggioritario di collegio a turno unico: funziona con successo da 200 anni nella più antica democrazia, obbliga a presentare candidati di valore, crea uno stretto rapporto tra elettore ed eletto.
Oggi sono altre opzioni politiche a occupare il dibattito: votare nel 2017, o puntare al 2018? Con questa maggioranza o allargata a Berlusconi? Anticipando il congresso Pd, o con primarie per la leadership? Con un Pd che resiste a queste tensioni o che si spacca? Alcuni punti dovrebbero essere fermi. Primo, cambiare l’Italicum: la pratica impossibilità di votare con due leggi totalmente diverse tra Camera e Senato, di fatto priva il Capo dello Stato di una delle sue principali prerogative, e falsa i rapporti politici in Parlamento. Secondo: per evitare che a fine gennaio la Consulta deliberi su un Italicum già condannato, e di fronte al rischio che si senta in dovere di “correggerlo” in modo autoapplicativo, il Parlamento dovrebbe prendere l’iniziativa di incardinare subito una proposta di legge per modificarlo. Terzo: ovvio che la discussione debba essere aperta, ma sarebbe illogico gridare al vulnus alla democrazia se una legge maggioritaria viene approvata a maggioranza.
E infine: oltre al rischio di consegnare il Paese agli incogniti azzardi del populismo, c’è anche quello di lasciarlo nelle sperimentate sabbie mobili del proporzionale. Per questa ragione se Renzi, perso il referendum, mancherà anche l’obiettivo del maggioritario, vedrà tutto il suo disegno riformatore spazzato via dalla controriforma proporzionale.
ARTICOLI CORRELATI
La consulta minacciosa e la nuova sottomissione della politica
di Sergio Soave – Il Foglio, 08 dicembre 2016
dicembre 9, 2016