E’ ormai scontato che il mondo finanziario dopo la crisi avrà regole più restrittive e regolatori più intrusivi. Con meno regolatori, meno specializzati e dotati di più poteri si pensa che sarà più difficile per gli operatori fare arbitraggio regolatorio scegliendosi da chi farsi controllare, ed eventualmente “catturarlo”. Ma anche i regolatori hanno la loro agenda, dove la priorità sembra essere quella di non farsi “catturare” dai loro omologhi. Così in Europa incontrano difficoltà l’istituzione di una vigilanza unica e l’adozione di procedure unificate per gli interventi di risanamento.
In America, prima ancora che si conoscano le risultanze dello stress test imposto da Tim Geithner alle 19 maggiori banche, già si dubita dell’attendibilità del risultato: tale é la convinzione che i legami tra Wall Street e Washington siano stretti e inestricabili. La realtà è che qui tutti hanno lo stesso interesse, le banche a non dover chiedere aiuto, il Governo a non dovere fornirlo; entrambi ad attendere finché gli spread tra tassi attivi e passivi adesso, e l’inflazione domani, non provvedano a sistemare il problema.
L’inadeguatezza di una soluzione disegnata tutta solamente sul lato della maggiore regolamentazione non sta solo nel pericolo della cattura del regolatore da parte del regolato. Anche se così non fosse, a meno di mettere il regolatore al posto del management (e di “eliminare” gli azionisti), rimarrebbe sempre un margine di discrezionalità per quest’ultimo. Come dimostrano Fannie Mae e Freddie Mac (e nel nostro piccolo, le Efim) il paravento del controllo pubblico ne aumenta il rischio. Regole e regolatori dovranno sempre lasciare uno spazio all’autonomia decisionale e all’iniziativa manageriale. Poniamo, ad esempio, che si metta un limite alla leva finanziaria: l’innovazione troverà altri sistemi per creare opportunità di guadagno, a cui saranno legati altri rischi. Sistemi che dovranno quindi trovare in sé il proprio equilibrio, grazie alla regola base del capitalismo, quella per cui si può osare, ma chi sbaglia paga.
Alla quella regola sono stati inferti colpi micidiali: l’azzardo morale è stato sparso a piene mani con i provvedimenti adottati per contrastare la crisi. Per ricostruire fiducia si sono date garanzie: da quella ai depositanti fino all’asso piglia tutto del too big to fail. Queste garanzie equivalgono ad assicurazioni fornite dallo Stato alle banche e ai loro clienti: come tutte le assicurazioni, anche queste producono selezione avversa e azzardo morale. E’ contraddittorio voler diminuire la propensione al rischio con metodi che, garantendo contro le conseguenze del rischio, inducono ad assumerne di maggiori.
Si dice che farlo era necessario, perché il rischio era sistemico. Ma la soluzione non può essere eliminarlo. Nessuno può pensare di gestire gli scambi finanziari del mondo globalizzato con una miriade di banchette, abbastanza piccole da poter fallire; o di finanziarne lo sviluppo con gigantesche banche utility. I prodotti dell’innovazione finanziaria non si sarebbero affermati se non servissero alle necessità dei clienti. La separazione netta tra banche di credito ordinario, dedite all’antico mestiere di raccogliere risparmio, e banche d’affari dedite a più complesse operazioni, non risolve il problema di come e a chi vendere i titoli delle cartolarizzazioni. E neppure protegge dai rischi: i bond Argentina e Parmalat erano prodotti plain vanilla, venduti allo sportello.
Sarà difficile tornare indietro: è possibile che l’aver lasciato fallire Lehman Brothers sia stato un errore, e non c’è controfattuale a indicare se lo sia stato salvare Bear Sterns. Ma si può evitare di aumentare ancora l’azzardo morale. Ad esempio incominciando a non dare per scontato che sia de facto diventato illimitato il limite all’assicurazione sui depositi, e che la garanzia statale su di essa, data nei giorni dell’emergenza, sia acquisita per sempre. Oppure evitando di sostenere che l’azzardo morale non esista perché gli azionisti delle banche hanno già pagato di tasca loro con la perdita di valore del titolo e con la diluizione a seguito dell’intervento dello stato. In proposito si legga la ricostruzione del caso LTCM fatta da Kevin Dowd (Money and the market, Essays on free banking, Routledge, London): esisteva un’offerta di privati, fu scartata dagli azionisti che sapevano di poter contare sulla Fed di New York e sul suo coordinamento.
Si può evitare di disfarsi allegramente del principio della razionalità dei mercati, e riconoscere invece i molti e potenti incentivi distorcenti sparsi un po’ dovunque dalla politica, dalla spinta a contrarre mutui con poche garanzie, al trattamento fiscale degli interessi, ai tassi di sconto reali mantenuti a lungo negativi, all’oligopolio concesso per legge alle agenzie di rating: erano irrazionali i mercati a tenerne conto?
E’ illusorio pensare che il problema del corretto apprezzamento del rischio, compreso quello sistemico, possa essere risolto regolando, segmentando, limitando. Quanto resterà libero – e qualcosa dovrà pur restare se vogliamo andare avanti – dovrà essere necessariamente soggetto alla regola base del capitalismo, chi sbaglia paga: se questa regola non funziona, è perché l’azzardo morale induce a pensare di poterla scampare.
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maggio 3, 2009