Su scala planetaria, al G20, a prendere la scena sono stati l’intesa sul clima con la Cina e la gelida stretta di mano tra Barack Obama e Vladimir Putin; a livello locale, nel Meclemburgo, la sua politica per i rifugiati le è costata l’umiliazione
di venir scavalcata dall’AfD. Ma se si ritorna al livello europeo, e ai problemi europei, è sempre Angela Merkel il punto di riferimento. Dopo l’incontro di Ventotene con Hollande e Renzi, in una settimana aveva incontrato, nell’ordine, i leader dei Paesi baltici, del gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria), dell’Europa settentrionale e dell’Europa centrale; se si considera che Hollande e Renzi rappresentino gli altri Paesi dell’Europa meridionale, il giro è completo. Tanto attivismo esautora o surroga Bruxelles? Nasconde un disegno egemonico, o cerca di ricomporre le divisioni che attraversano l’Europa? E si erano sentite le solite voci: ci vorrebbero gli Stati Uniti d’Europa, il presidente del Parlamento europeo eletto con voto diretto, il metodo comunitario in luogo di quello intergovernativo previsto da Maastricht.
Ma esiste, più radicato di ogni comune sentire, più fondamentale di ogni trattato, più solido di ogni architettura istituzionale, il principio democratico: sono i popoli a decidere da chi vogliono essere governati. Quando lo si è voluto verificare anni fa con i referendum sulla costituzione europea, mesi fa con Brexìt si è visto che il rapporto politico che vogliono i popoli europei è quello”corto”, con i governanti della loro nazione. L’Europamercato unico, la moneta unica nell’eurozona, la protezione che un’istituzione più “lontana” a volte assicura al cittadino e al consumatore contro le prepotenze dei gruppi di pressione locali: formano un acquis européen ormai sedimentato nella coscienza e nei comportamenti di tutti. Ma non esiste un discorso politico “forte” a livello europeo. Non è che a Maastricht i governanti «siano stati tutt’altro che disposti a cedere questioni cruciali per il loro destino elettorale» (Sergio Fabbrini sul Sole 24 Ore del 28 agosto): è che i governati non avrebbero accettato un’eccessiva distanza istituzionale da chi decide su questioni cruciali per il loro destino, come la politica fiscale (sempre) e quella sui migranti (oggi). E chi se ne scorda, vede le urne riempirsi di voti per i movimenti populisti.
Certo che la Germania ha fatto degli errori: la “passeggiata di Deauville”; la politica di sanzioni verso la Russia; la pretesa di risolvere i problemi del debito pubblico con la camicia di forza del fiscal compact; l’eccessiva generosità verso i migranti (il «wir schaffen das»). Posta al centro dell’Europa, d’Europa per popolazione e per economia la maggiore, con un’invidiabile continuità politica, convintamente europeista nei suoi leadere, per ora, nel suo popolo, la Germania ne è un’insostituibile elemento di stabilità. E Angela Merkel, nonostante l’esito delle elezioni del Meclemburgo, è l’unico personaggio capace, oggi, di contenere le crisi, il dopo Brexit, i migranti, il terrorismo, le derive politiche nel Nord Est.
È quindi autolesionista voler cogliere ogni occasione – anche la settimana di incontri della Cancelliera – per snocciolare il rosario della germanofobia. Autolesionismo gratuito, dato che il più delle volte si tratta di tesi senza ragionevole fondamento. Lasciamo perdere lo stucchevole riferimento alla polisemia della parola «Schuld» (debito e colpa, come nel Pater noster). L’accusa di strangolare con teutonica austerità suona strana se viene da un Paese come il nostro il cui debito continua ad aumentare anno dopo anno. Si accusa la Germania di aver aiutato la Grecia per salvare i crediti delle sue banche, quando è noto che per evitare il precipitare di una crisi bisogna aiutare le banche a ridurre i debiti, e quelli maggiori sono con chi aveva prestato di più. Si punta il dito sul surplus commerciale, senza dire che quello, enorme, verso la Cina ha effetti diversi da quello, modesto, verso i Paesi europei. Si incolpa la Germania di stare nell’euro perché alle sue esportazioni conviene un cambio tenuto basso dalla nostra inefficienza, senza ricordare quanto costerebbe a noi il nostro debito se non ci fosse il «whatever it takes». Si rimprovera alla Germania di non promuovere un grande piano di infrastrutture europee, quando quello lanciato da Jean-Claude Junker, e che era servito a farlo eleggere alla presidenza della commissione, ha per ora risultati che è eufemistico chiamare modesti. E così andando.
L’Europa è attraversata da tensioni, politiche ed economiche, quali mai conosciute negli ultimi decenni. Nel mondo, dagli Usa alla Cina, dal Medio Oriente all’Africa, si addensano nubi che potrebbero invertire processi che credevamo acquisiti. Gli stati uniti d’Europa non ci sono perché lo escludono i trattati. Pensare di rimetterci le mani oggi sembra poco realistico. Meglio attendere con buona volontà a mantenere quello che c’è, uno spazio di civiltà, di libertà, di concorrenza.
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