Caro Direttore, quando ci si chiede perché si sono fatte le privatizzazioni (Marcello Sorgi, Quegli affari tra ombre e tragedie, La Stampa 20 agosto) e si prova a giudicare se sono state fatte «bene» o «male» (ma che cosa significa, di preciso?), giova ricordarsi che l’Italia nel 1993 era il Paese Occidentale con la maggiore presenza dello Stato, circa il 50% dell’economia industriale. Monopoli, di legge o di fatto, erano i principali settori industriali; la Borsa valori era di modeste dimensioni, spiazzata dai titoli del debito pubblico; non esistevano i fondi di investimento istituzionale, tutte le grandi banche erano di proprietà dello Stato, tassello cruciale della Prima Repubblica e del sistema dei partiti.
È difficilissimo creare mercato dove c’era statalismo: ben lo sanno i tanti Paesi che, dopo il fallimento dell’economia di piano, imboccarono quella strada. L’Italia però riuscì a trovare, in pochi anni, capitali e volontà imprenditoriali per trasformare il nostro Paese in un’economia di mercato aperto alla concorrenza. È stata una svolta storica per il nostro Paese, di cui va reso merito a Ciampi e Prodi. Certo, privatizzare serviva a scongiurare il rischio che i debiti delle partecipazioni statali diventassero debiti della Repubblica, certo i proventi valevano a dimostrare che si era imboccata la strada per raggiungere i famosi parametri di Maastricht: ma l’Europa è stata costruita come spazio economico aperto al mercato ed alla concorrenza, e per entrare in Europa era necessario fare quella scelta senza esitazioni.
«Occorre riconoscere con modestia», scriveva Mario Draghi nel 1999, «che non esiste una teoria delle modalità ottime per privatizzare una società»: e descriveva il processo per cui «il Tesoro governa il primo passaggio di proprietà, il mercato governerà i successivi».
Le privatizzazioni italiane sono state fatte «male» o «bene», dunque? Il problema è il punto d’osservazione. Una volta che un’impresa è privata, alla collettività non deve interessare se è «ben gestita» ovvero l’andamento del titolo. Ma la qualità del servizio per i consumatori.
Il caso di Telecom è emblematico: non essendosi formati imprenditori esperti nei settori da cui erano stati preclusi, Prodi dovette impegnarsi personalmente per convincere Fiat a fare il primo passo; il secondo lo fece l’opa di Colaninno: di lì un’alternanza per il controllo. Ciò che si rileva, per tutti, è che ora il settore telefonico è animato da una vivacissima concorrenza: ci sarebbe stata senza privatizzazione?
Le imprese possono fare sbagli: ma se sono private non possono permettersi di non correggersi presto, quindi il costo è minore e a pagare sono gli azionisti, non i contribuenti. Altrimenti arriva, implacabile, la sanzione del mercato. Quale è l’equivalente nel pubblico? Una promessa di commissariamento?
Forse la cosa che ha funzionato meno «bene» nelle privatizzazioni italiane è lo Stato. Che fatica a imparare a fare un nuovo mestiere. Continua a fare come se ne fosse ancora proprietario, intervenendo nelle scelte aziendali, come è avvenuto a ripetizione nel caso di Telecom. La privatizzazione richiede anche all’amministrazione pubblica una nuova competenza, quella di prescrivere livelli di servizio e di eseguire controlli. Dopo la tragedia di Genova, che senso ha proporre di affidare la gestione dell’azienda a un’amministrazione accusata, forse a ragione, di «distratta carenza di controlli»?
Ci sono certo molte cose da cambiare nella Seconda Repubblica, quello che è certo che questo non è un motivo per ritornare alla prima: sarebbe un suicidio.
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