Siamo in deflazione? “Come sempre, la risposta di Mario Draghi è stata delfica” commenta il Financial Times: i tassi rimangono dov’erano e le nuove politiche monetarie non convenzionali restano nel cassetto, però la Banca centrale europea è unanime nel riconoscere la necessità di rispondere adeguatamente ai rischi di un periodo troppo lungo di bassa inflazione.
Ancora una volta, come già per l’Omt (ribattezzato dalle cronache “scudo antispread”) basterà la parola?
Inflazione e deflazione sono entrambi fenomeni alimentati dalle aspettative: inflazione quando predomina la convinzione che i prezzi inesorabilmente cresceranno, deflazione nel caso contrario. Nel primo caso si è indotti a investire, nel secondo a rinviare. Se si sbaglia previsione, nel primo caso non si realizza il guadagno sperato, nel secondo si incorre in una perdita imprevista. Il rischio di non guadagnare è percepito diversamente dal rischio di perdere, le reazioni non sono simmetriche, inflazione non è il contrario di deflazione.
Entrambe si combattono vanificando le aspettative: per ridurre la propensione a investimenti speculativi, basta tagliare il guadagno atteso; per suscitare una nuova disponibilità a investire bisogna ridurre il rischio di perdita. Il pericolo di inflazione si riduce eliminando i meccanismi automatici di adeguamento (scala mobile); quello di deflazione, ad esempio, assicurando chi assume un dipendente che non dovrà sopportare costi se fosse costretto a licenziarlo l’anno prossimo. Il mercato del lavoro ha un’importanza rilevante nel produrre l’asimmetria tra inflazione e deflazione, perché in risposta a uno choc positivo i salari nominali crescono, mentre è difficile ridurli se lo choc è negativo.
Siamo in deflazione? Sono le aspettative a fare la differenza tra deflazione e discesa dei prezzi per caduta della domanda aggregata. Differenza non facile da interpretare, e facile da strumentalizzare. E’ sicuramente vero che i paesi periferici dell’Eurozona devono riacquisire competitività relativa, e che con la valuta unica questo richiede necessariamente che i prezzi da noi crescano meno che nei paesi core. Però se da loro l’inflazione è già prossima allo zero, è altissimo il pericolo che da noi si entri in deflazione, e, come si sa, una volta che si è innescato l’avvitamento aspettative-decisioni, non ci sono strumenti risolutivi per contrastarlo.
Oltretutto la dinamica dei prezzi non è uniforme in tutto il mercato: diminuiscono nei settori esposti alla concorrenza, e restano fermi in quelli che ne sono schermati, chi lavora nel settore protetto gode di una rendita pagata da chi lavora nel settore che esporta. Sforare Maastricht non è una soluzione: per ridurre la rendita bisogna ridurre le attività svolte in regime non concorrenziale, privatizzando e liberalizzando; e dove non si può, creare una sorta di concorrenza interna, reingegnerizzando le funzioni; e in ogni caso sradicando la convinzione che dagli organici della Pubblica amministrazione si esce solo quando si va in pensione. Fare “come un’azienda che perde”, sintetizza Piero Giarda. I tagli di spese improduttive e le riforme che aumentano la produttività richiedono tempo per avere effetti reali. Se c’è una cosa che la politica monetaria ci ha insegnato è che le politiche producono effetti anche prima di essere compiutamente implementate: a condizione che i piani siano credibili. Tutto dipende di lì: contano le aspettative.
Contro la deflazione, quali politiche non convenzionali può mettere in atto la Banca centrale europea e che effetto possono avere? Acquistando azioni e obbligazioni il prezzo delle prime aumenta, il rendimento delle seconde diminuisce: si riduce quindi il costo del capitale; mettendo in portafoglio titoli a lungo termine, segnala al mercato che cercherà di mantenere a lungo i tassi bassi, per evitare di subire perdite in conto capitale. Il calo dei rendimenti dovrebbe deprezzare l’euro rispetto al dollaro, favorendo le esportazioni: questo sì che sarebbe un aiuto alla crescita.
Se non fossero così numerose le variabili che influenzano i rapporti di cambio, e così imprevedibili gli effetti dei loro intrecci.
Nell’Europa bancocentrica, la Bce, a differenza della Fed, per comperare azioni e obbligazioni in quantità significativa, deve passare attraverso le banche. Convoglieranno il danaro alla cosiddetta economia reale, o lo useranno per migliorare i propri ratio? Sarebbe grottesco se finissero per finanziare la bolla immobiliare da cui tutto ha avuto inizio. Se le banche cartolarizzano i propri crediti e possono scaricarli sulla Bce, diminuisce l’incentivo a valutare correttamente il merito di credito, proprio ciò che invece è indispensabile per selezionare investitori e investimenti.
“Ibis redibis non morieris in bello”: l’oracolo di Delfi creava ambiguità, l’effetto principale delle parole di Draghi sarà probabilmente quello di eliminarne alcune.
Il consenso unanime, compreso dunque quello della Deutsche Bundesbank, dovrebbe eliminare una ragione del “Merkel bashing” che è servito solo ad alimentare risentimenti. Se la parola deflazione non è più tabù, è possibile concentrarsi sulle cose da fare concretamente per combatterla: liberalizzazione del mercato del lavoro, senza scalini in entrata e senza vincolo in uscita; per noi in particolare, l’eterno problema della riforma della Pubblica amministrazione, danno emergente per i conti pubblici, lucro cessante per chi vi deve ricorrere. Potrebbe perfino succedere per il Qe quel che è stato per l’Omt: basta la parola.
aprile 11, 2014