Il Consiglio di amministrazione di Telecom che si terrà giovedì 4 Giugno è particolarmente importante: esso segue una serie alquanto sconcertante di fatti e di dichiarazioni.
La cosa potrebbe essere di interesse solo degli analisti finanziari o dei consulenti in strategie aziendali, non fosse per una ragione: trattandosi della più grossa privatizzazione finora effettuata dal Tesoro, e avendo questi dichiarato che della vicenda trarrà “debita lezione” per il futuro, le vicende in corso a Telecom finiscono per disegnare un vero e proprio nuovo ruolo per lo Stato nelle aziende privatizzande.
Un ruolo potenzialmente assai temibile: quello di una mano pubblica che si concepisca come fondo d’investimento ben presente ancora per anni nella vita e nelle scelte di queste aziende.
Per contrastare tale tesi, bisogna però riesaminare la vicenda Telecom dall’inizio. Se i primi passi di Telecom privatizzata hanno dato luogo a qualche giustificato sconcerto, la causa è da ricercarsi nel fatto che quasi tutti gli interessati avevano obiettivi diversi tra loro, e non coincidenti con quello che dovrebbe essere l’obbiettivo di ogni gestione d’azienda, creare valore per gli azionisti. Invece, chi più chi meno, tutti hanno caricato Telecom di propri, diversi obbiettivi.
Palazzo Chigi voleva dimostrare che l’Ulivo era in grado di realizzare la madre di tutte le privatizzazioni, facendo cioè meglio della Germania, e ciò nonostante la presenza di Rifondazione nella maggioranza; e voleva per la perla dell’IRI un ruolo da protagonista nel business delle telecomunicazioni mondiali.
Al Tesoro anche la vendita di Telecom, come tutto, era visto in funzione del traguardo dell’euro. Parola d’ordine: evitare qualsiasi intoppo. Dunque evitare i vituperati “spezzatini” anche se vendendo a pezzi si crea concorrenza e si incassa di più; vendere a un nucleo stabile, per evitare che questo si formasse successivamente e il Tesoro potesse essere accusato di aver venduto ai soliti noti; mettere limiti al possesso azionario in omaggio alla retorica della public company. Per rendere l’azienda appetibile agli investitori, le si mise a capo un personaggio di indiscusso profilo, e la si dotò di un’alleanza strategica, con un partner apparentemente indiscutibile, di grande stazza e dunque dai riflessi non troppo veloci come AT&T.
Tuttavia i soci del nucleo stabile, nonostante personali interventi ad altissimo livello, si stentò assai a trovarli. Il mercato – parliamo dei grandi fondi d’investimento internazionali, non delle centinaia di migliaia di risparmiatori – non mostrò entusiasmo per le procedure e il prospetto della privatizzazione. IFI-IFIL si è assunta così la responsabilità di essere l’unico membro industriale del nucleo stabile.
Anche i protagonisti individuali sono portatori di interessi propri: Guido Rossi ha visto in Telecom l’occasione per mettere in pratica regole di corporate governance perseguite da una vita. E infine, perchè mai anche Rossignolo non dovrebbe usare anche lui Telecom per coronare, alla testa di una quasi-public company, una carriera percorsa sotto le insegne di grandi famiglie?
Troppo diversi erano gli obiettivi, dunque. A impedire poi che si realizzasse il piano del Tesoro, che tutto cioè andasse liscio e senza intoppi per un paio d’anni, stata l’alleanza strategica, suggellata dallo scambio di posti nei rispettivi consigli, con l’azienda telefonica per antonomasia, la mitica Ma’Bell. In realtà le due aziende avevano in comune solo di non essere riuscite in tanti anni a darsi una strategia che non fosse quella di gestire il monopolio. Che l’alleanza sia andata in pezzi resta da dimostrare che sia stato un male. Quanto al seguito, per il momento appare solo una buona occasione per Cable&Wireless per vendere una serie di partecipazioni di minoranza.
Dopo le dimissioni di Rossi, membri anche autorevoli del PDS avevano reclamato l’intervento del Tesoro. Ma via XX settembre si era tirata fuori. Ma quando dal tourbillon di manager si è venuti alle strategie, al Tesoro si sono fatti seri. L“ sanno bene che le strategie possono costare care, che gli analisti sono fini e rapidi nel valutarle e rapidi nel giudicare. Un crollo del titolo, a così breve tempo dal suo collocamento, è un’eventualità che il Tesoro non può accettare. Io sono convinto che l’ultima cosa che Ciampi e Draghi avrebbero voluto, è di intervenire nelle vicende gestionali di Telecom, e che ora vi sono spinti solo dal timore di un insuccesso finanziario.
Che il Tesoro abbia ragioni per farlo è indubbio. Ciò che desta perplessità è il modo, il tipo di “lezione” che Ciampi ha detto di voler trarre e applicare anche alle future privatizzazioni. Qui viene il punto centrale. L’errore non è stato quello di aver troppo presto levato la mano pubblica dall’azienda, come molti commentatori e osservatori – anche assai lontani da Rifondazione comunista – hanno detto in queste settimane. Al contrario, l’errore è di non aver levato la mano pubblica con sufficiente nettezza: avere propri membri nel CdA dà diritti ma rende corresponsabili delle decisioni.
E più di tutto ha nuociuto l’aver consegnato l’azienda agli acquirenti con obbiettivi diversi dagli unici che il Governo dovrebbe perseguire: quelli degli utenti che per il momento non hanno alternativa di mercato e quelli della maggioranza degli azionisti ai cui risparmi si e’ fatto appello.
Gli utenti sono interessati, nella totalità, ad avere prezzi più bassi; l’utenza affari e quella più sofisticata, anche ad avere servizi migliori. Gli uni e gli altri si ottengono solo se si instaura una feroce concorrenza in un mercato ancor oggi sostanzialmente monopolistico. L’interesse degli utenti e’ dunque che la quota di mercato di Telecom diminuisca a vantaggio dei concorrenti.
Per strano che possa sembrare il loro interesse può coincidere con quello degli azionisti.
Si sa che per aumentare la shareholder value, bisogna vendere le aziende non essenziali, ed essere brutali nel perseguire l’efficienza interna. Cinquant’anni di assenza di monopolio, quando la regola numero uno era non avere problemi col sindacato, hanno depositato incrostazioni che, se incise, costituiscono margini di potenziale profitto. Se l’avvento dei concorrenti inevitabile, solo così si proteggono i margini. Poi potranno pure venire le strategie internazionali, ma con qualche precauzione. Perché è bene avere il senso delle proporzioni, e perché anche in questo mestiere l’esperienza non è un optional.
Se il Governo avesse reso evidente a Telecom che la sola politica del Governo è la riduzione del suo potere di monopolio, fare efficienza per proteggere i margini e difendersi migliorando il servizio sarebbe stata e diventerebbe la prima preoccupazione del management. Anche gli azionisti ne terrebbero conto nel selezionarlo. E questo solido criterio di priorità farebbe giustizia da solo di tutte le nostalgie del passato che intorno alla vicenda Telecom hanno preso, purtroppo, a manifestarsi: allungando le loro ombre non solo nel mondo della politica, ma anche su settori di primo piano dell’impresa privata italiana.
giugno 2, 1998