La destra storica non si è liberata dei suoi scheletri
«La vita non può essere stilizzata in un grafico, l’econometria non è la filosofia: la vita è fatta da fedi, passioni, sentimenti, virus». E’ difficile non restare colpiti dalle icastiche formule con cui Giulio Tremonti torna di tanto in tanto alla branca che più gli è cara. La sociologia economica, assai più del diritto tributario. Una materia che nella storia economica è vissuta di contributi e sviluppi soprattutto da sinistra e che non a caso ci restituisce un Tremonti «di sinistra».
Ieri, un Tremonti che in nome dei capannoni, contro la presunta resa dell’Ulivo al capitalismo finanziario, ha ricondotto Bossi in dote a Berlusconi. Oggi, un Tremonti che in nome del ritorno allo statalismo si candida a realizzare un asse tra Berlusconi, Schroeder e Chirac. Ma al di là della sulfurea visionarietà delle sue analisi, si leggono forzature e distorsioni che ne minano il ragionamento.
Accade anche in entrambe le parti in cui si articola la lunga intervista di Aldo Cazzullo (La Stampa del 16 novembre): la prima in cui critica la «sinistra postcomunista» per il suo dogmatismo; la seconda in cui illustra il pragmatismo di quello che egli chiama «il mio New Deal».
Così è da sinistra che Tremonti accusa l’Ulivo di aver abbracciato «l’utopia delle privatizzazioni», sicché questa, invece di dar vita a un sistema basato su public company, si è risolta «molto spesso in passaggi di proprietà segnati ogni volta dalla crescita dell’indebitamento». Senza fondi pensione, bisognava partire dalle privatizzazioni bancarie e Prodi per prima cosa vendette Credit e Comit. Ma quando si trattò delle banche possedute da Fondazioni, venne forse un cenno di apprezzamento dal centrodestra per altri modelli di privatizzazioni che pure da sinistra si proposero? O non fu il partito delle Fondazioni a vincere nella destra, allora come oggi, che Tremonti si vede sconfitto in casa sulla sua riforma? Stavano forse a sinistra le resistenze per cui la riforma Draghi non fu più radicale, la vendita di Telecom diversamente articolata, e quella dei servizi pubblici locali condotta a termine?
Stesso discorso nei riguardi di Firenze: è da sinistra che Tremonti critica chi non vede che il Social Forum parla di valori, e che sarebbe global a ogni effetto. Ma, prima che (una parte della) sinistra solidaristica si perdesse dietro la Tobin Tax, e anni prima che Tremonti proponesse la sua Detax, era alla sinistra che Paolo Savona aveva proposto l’introduzione in sedi multilaterali come il Wto di tariffe differenziate per incentivare i paesi emergenti alla «reciprocità tra prodotti e doveri», cioè alla concessione di diritti sociali dei lavoratori (che oggi Tremonti vorrebbe «imporre»). Ma veniamo al secondo argomento, quello della politica che Tremonti intende perseguire oggi da Ministro dell’Economia.
A una sinistra descritta come attardata in attesa della prossima trimestrale di cassa, pronta a chiedere manovre correttive in ossequio a un’interpretazione evidentemente «stupida» del Patto di Stabilità, Tremonti contrappone la sua capacità di progettare un New Deal. A una sinistra «ancora ferma alle idee dogmatiche e domestiche dell’Antitrust», che ci avrebbe lasciati indifesi di fronte all’aggressività di francesi e tedeschi nell’energia, nei trasporti e via proseguendo, Tremonti contrappone una difesa del mercato italiano. Sennonché dietro questa istantanea si cela un non detto che ne mina fondamenta e credibilità. L’Europa della quale Tremonti parla non mostra al momento di avere alcun New Deal da estrarre dal cilindro. L’Europa della neo «entente» franco-tedesca a trent’anni dal trattato dell’Eliseo, é l’Europa in cui Schroeder, malgrado sia in recessione, torna ad aumentare tasse e contributi, e in cui Chirac si guarda bene dal voler sottoporre ai morsi della concorrenza i suoi campioni nazionali, Edf, Gaz-de-France, France Telecom e via proseguendo.
E’ un’Europa abbarbicata nella difesa di ciò che ci rende strutturalmente deboli e meno competitivi rispetto a Usa e Gran Bretagna che crescono di più. E’ un’Europa alla quale l’Italia dovrebbe contrapporre, per interesse nazionale e continentale, una seria battaglia in favore di mercato e concorrenza. Se solo non avesse quel debito pubblico così ingente, che, accodandosi, invece Tremonti mira a evitare sia la guancia su cui possa posarsi lo schiaffo di Berlino e Parigi, in sede interpretativa del Patto di Stabilità. Politiche colbertiane? Ma andiamo, per condurle ci vogliono industrie cresciute ad hoc, amministrazioni capaci di controllarle, manager di dirigerle: dove sono da noi il nucleare, i Tgv, gli Airbus, le Ariane? Dove le Grandes Ecoles, l’Ena e il Politechnique? Tremonti sa bene invece che le politiche protezioniste danneggiano chi le pratica, e che l’alto livello di tasse e contributi è una delle cause della bassa crescita europea.
Accodandosi a questo mainstream, Tremonti in fondo riporta la destra alle sue politiche tradizionali. Brevi furono i periodi in cui la destra perseguì politiche autenticamente liberiste: per restare in Italia, chiusa dalla destra della consorteria toscana la breve, memorabile parentesi della destra storica, si ricordino solo le polemiche di Vilfredo Pareto o di Francesco Ferrara.
Tremonti vede una sinistra che «attende la crisi salvifica del capitalismo», e trova nella freccia della storia le ragioni di vittoria di una «borghesia che ha sempre vinto». Se ci consente il paradosso, vorremmo chiedergli noi chi è davvero «rimasto alle prese con i suoi scheletri».
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novembre 18, 2002