Nelle privatizzazioni «il governo, ha scritto su «La Stampa» l’ex ministro dell’Industria Paolo Savona nella sua intervista alla Stampa, aveva deciso di valutare caso per caso quale dei tre obbiettivi (sviluppo, governabilità, diffusione dell’azionariato) dovesse essere privilegiato nell’interesse generale del Paese». Non sembra trattarsi di alternative diverse: il governo si legittima anche in ragione dello sviluppo che riesce, a promuovere, e la diffusione, dell’azionariato non è un bene in sé, ma solo se serve ad evitare intrecci di interessi che frenino lo sviluppo e vendichino il controllo. In realtà la vera scelta è tra il massimizzare i proventi per i venditori (l’Iri o il Tesoro) e il cogliere l’occasione delle privatizzazioni per ridisegnare la mappa delle attività imprenditoriali nel Paese: nel senso, si sperava, della modernizzazione e dell’allargamento.
Difficilmente l’«atomizzazione» della proprietà tra piccoli azionisti risponde allo scopo. Nel caso delle banche, si richiede l’emergere di soggetti nuovi, istituzioni finanziarie dotate di autonoma capacità di gestire in modo attivo i propri investimenti. La cosa avrebbe richiesto tempi incompatibili con le necessità e quindi l’esito delle privatizzazioni di Comit e Credit era in qualche modo inevitabile.
Il rendersene conto in anticipo avrebbe forse consentito di ottenere migliori risultati almeno sul perseguimento dell’altro obbiettivo, e cioè quello di massimizzare gli incassi per l’Iri.
Adesso, con la privatizzazione della Stet, si entra nel vivo della politica industriale del paese; qui si decidono da un lato le opportunità che il sistema industriale italiano può cogliere in uno dei settori più vivaci e promettenti, dall’altro varietà, efficienza e costo dei servizi su cui il nostro sistema industriale potrà contare.
Si ripropone allora la scelta dell’obbiettivo prioritario: fare cassa o fare politica industriale. Elemento discriminante è la quantità di garanzie di tipo monopolistico che ai intende rilasciare all’atto della cessione, Nel caso Stet (ma analoga situazione si ritroverà quando si parlerà di Enel e di Agip), situazioni di monopolio si ritrovano non solo nel rapporto di concessione tra azienda e Ministero, ma anche nei monopoli interni che si sono lasciati crescere dentro il Gruppo all’ombra del monopolio primario: un piccolo esempio è dato dalla denuncia di questi giorni da parte delle imprese di installazione di apparecchiature telefoniche.
In Stet convivono una grande quantità di business, ed anche qui si pone un interrogativo: è necessario ed utile, per il sistema industriale italiano, che essi rimangano riuniti sotto il cappello della finanziaria di settore, o non bisognerebbe cogliere questa opportunità per dare maggiore spazio ai singoli business, per favorire il nascere di elementi di concorrenza, per offrire opportunità di investimenti industriali e non solo finanziari al nostro sistema di imprese? E’ proprio giustificato non discutere neppure l’opzione se vendere tutto insieme o realmente privatizzare singoli settori di attività?
Schematizzando in modo molto riduttivo, si può dire che in Stet convivono due tipi di attività: da un lato la proprietà della rete fisica della telefonia tradizionale, dall’altro la gestione dei vari servizi che «viaggiano» su questa rete più una serie di attività connesse. In particolare: traffico telefonico sulle reti; telefonia cellulare, che alla fi, ne deve essere convogliata sulle reti urbane; servizi a valore aggiunto; fabbricazione di apparecchiature; installazione e manutenzione (di reti fisiche e di apparecchiature); produzione di software specialistico telefonico; banche dati (pagine gialle e servizi di marketing connessi).
La concessione esclusiva della rete fisica della telefonia tradizionale appare giustificata per molte ragioni: può così dirsi della maggior parte delle altre attività? Non sembra fuori luogo chiedersi quali di esse consentano reali sinergie, e quali invece blocchino il libero sviluppo dei mercati, quali nascano da una precisa definizione del proprio core-business, e quali invece dal desiderio dei vertici aziendali di estendere il proprio potere, dal dover subire (o voler sfruttare) il piccolo mercato nazionale. Alcuni di questi settori si sono di recente parzialmente liberalizzati, nonostante le resistenze Stet: ma quanto ci è costato il ritardo? Da dove provengono i cospicui etili della Sirti, la società del grippo specializzata nella posa e manutenzione di reti? La presenza di attività di produzione di apparecchiature ha accelerato o ritardato l’ammodernamento della nostra rete? Ed a che prezzo? E’ un vantaggio o uno svantaggio quando Sip si candida a gestire reti all’estero? E’ più efficiente, per Sip ma anche per l’intero sviluppo dal settore software in Italia, che Telesoft sia sostanzialmente un reparto di Stet, o che sia una società autonoma? Guanto ha influito il conflitto tra Sip e Stet su chi dovesse essere titolare dei servizi a valore aggiunto sul ritardo di questo settore?
Sono disponibili biblioteche intere di studi sulle opzioni possibili: quella di lasciare per ora tutto com’è e di cambiare solo assetto proprietario non è una scelta neutrale ne l’unica possibile.
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maggio 9, 1994