“Transizione e contraddizioni”
“Transizione e contraddizioni” poteva essere il titolo della lunga intervista di Franco Tatò al Sole 24 Ore di mercoledì.
Contraddizioni nella transizione da tariffe a prezzi: per Tatò è illiberale fissare i profitti di un’impresa dall’esterno, ma la vera illiberalità è l’esistenza del monopolio. E se appare contraddittorio creare il mercato d’autorità, intollerabili sono le reazioni dell’A.D. dell’azienda di Stato all’Autorità preposta dalla legge.
Contraddizione nelle municipalizzate, la rileva anche Tatò: agiscono come fossero private, mentre il pubblico ha non solo il controllo, ma la maggioranza assoluta.
Contraddizione invece solo apparente quella di unificare le zone di distribuzione in (poche) grandi città. Esproprio metropolitano, secondo Tatò. Ma ad essere stato espropriato è il mercato, quando si è deciso di non costituire società da vendere al miglior offerente.
«La francese EDF, dice Tatò, è un fattore di distorsione macroscopico: guai a fare apparire l’Italia come un territorio di caccia per i più svelti». Con questo attacco frontale la discussione si impenna, dalle contraddizioni della transizione nazionale si passa a quelle che si stanno verificando con il passaggio dei monopoli alla dimensione transnazionale.
Nel caso Telecom Italia- Deutsche Telekom andava contro il senso comune che l’Italia privatizzasse una sua azienda per vederla poco dopo inglobata nell’azienda pubblica di un altro paese; opporremmo la golden share se EDF comprasse tutti i 15mila MW che l’ENEL dovrà dismettere.
Ma se ne volesse comprare solo un parte? Se le Landesbanken tedesche, protette dalla garanzia pubblica, partissero alla conquista di una nostra grande banca ( e si fosse nel frattempo convinto il Governatore a non opporsi alle OPA ostili)?
Se il mercato è competitivo, se sono consolidati un congruo numero di operatori privati forti, è difficile che una strategia di dumping porti ad acquisire una posizione dominante. Se EDF, acquistata la privata London Electricity, si prende il lusso di vendere elettricità a prezzi fortemente concorrenziali, i londinesi non hanno nulla da temere e possono tranquillamente ringraziare i contribuenti francesi.
Gli inglesi hanno «fatto un buon lavoro»; sentirlo dire procura una certa soddisfazione a chi, come il sottoscritto, fu oggetto di vivaci polemiche per averlo sostenuto quando altri erano a capo dell’ENEL e del Ministero dell’Industria. Ma gli inglesi incominciarono tanto tempo fa, e noi siamo invece in piena transizione. Lo siamo nel gas, nell’elettricità, nelle banche, nell’acqua; solo con l’OPA, Telecom è diventata veramente privata.
« L’Europa – dice Tatò -ha enunciato dei principi che sono tutti largamente condivisibili: senza quei principi di cammino se ne sarebbe fatto ben poco…».
Ricordiamoli quei principi: che un sistema economico basato sul mercato è più efficiente di uno basato sulla proprietà pubblica dei mezzi di produzione; che non basta la concorrenza sui prodotti e servizi, ma che è necessaria anche quella sui diritti di proprietà. Il Trattato di Roma non discrimina le imprese di proprietà pubblica, anzi ammette riserve di legge se indispensabili per raggiungere gli scopi sociali. Ma questo era quasi mezzo secolo fa: eliminate barriere tariffarie, smantellati i monopoli, oggi si deve convenire che il mercato unico sarà compiutamente realizzato solo quando le imprese saranno tutte sullo stesso piano, senza protezionismi e senza national champions.
Proprio con il collocare il problema nella dimensione europea, Tatò fa emergere la più radicale, la più ontologica delle contraddizioni: perché EDF è “fattore di distorsione macroscopica” e ENEL no? Perché distorce EDF pubblica che entra in un nuovo mercato, e non distorce l’ENEL pubblica che entra in mercati nuovi? Tatò non si accorge che in tal modo dà ragione a chi obbietta che quando l’ENEL pubblica entra nella telefonia che stiamo aprendo ai privati, o nell’acqua che cerchiamo di sottrarre alle grettezze comunali, o nell’impiantistica dove ci sono operatori privati e privatizzandi, non fa «serio sviluppo industriale», al contrario lo ostacola sottraendo spazi di mercato ad altri imprenditori. Tatò finisce per dar ragione a chi sostiene che quando, con la minaccia di licenziare, ottiene il permesso di diversificarsi, non risolve un problema ma prepara per i governi futuri quello di dover privatizzare nuove imprese pubbliche. I risultati economici conseguiti da Tatò sono certo di grande rilievo: ma il bilancio del paese è più grande e ha più voci di quello dell’ENEL . Anche l’URSS riuscì a battere per alcuni anni gli USA; e ci furono anni in cui i treni arrivavano in orario.
«I nuovi Mattei, scrissi due anni fa, promettono un frutto irresistibile agli occhi della cultura politica italiana: lo statalismo di successo”. Tatò la trova una battuta patetica. Certo, non potrebbe eleggere un Presidente della Repubblica, il suo rapporto con il Governo è trasparente, la sinistra-sinistra lo sostiene per pura passione. Franco Tatò non ha la dimensione né politica né imprenditoriale di Enrico Mattei, non serve un disegno pericoloso, solo un progetto dannoso: ma non c’è nulla di patetico nel confronto.
Manager “privato” fino al midollo e capo dell’unica nostra azienda nazionalizzata; a casa sua in Europa e limitato a operare entro i confini nazionali; imprenditore a cui è negato il futuro su cui proiettare le sue strategie: nulla di patetico, solo un viluppo di irrisolvibili contraddizioni.
luglio 16, 1999