Pensavo agli attentati di Roma e Torino, leggendo due ricerche. La prima, «Cultura, apertura e finanza», di Rene M. Stultz della Ohio University, dimostra quanto, nel mondo globalizzato, l’elemento religioso nazionale conti nella tutela dei diritti dei creditori. La seconda di Charles Wyplosz, riscontra che la liberalizzazione finanziaria produce nell’immediato un boom del prodotto interno lordo, seguito da crisi valutarie più o meno accentuate a seconda del grado di efficienza dei regolatori, e quindi da periodi recessivi: ma che per i paesi in via di sviluppo la crescita del Pil che segue la liberalizzazione è molto più accentuata che nei paesi più avanzati, e anche il rallentamento che segue le crisi nel medio periodo è meno forte.
Il mondo descritto in queste due ricerche è certo molto più integrato, ma è ben diverso da quell’orrido scenario di omologazione uniculturale, sfruttamento e alienazione che i terroristi del Nucleo d’iniziativa proletaria rivoluzionaria spacciano per globalizzazione nel loro documento di rivendicazione.
E ci pensavo anche incontrando ieri degli operai espulsi anni fa dalla fabbrica, e segnati da una flessibilità vissuta come penalizzante precarietà. Torino ha già conosciuto, due decenni fa, la terribile stagione in cui bisognò combattere perché la paura della perdita del posto di lavoro, esplosa in uno scontro sociale violento, non assicurasse l’acqua torbida in cui i terroristi nuotavano. Chi, come me, si occupa di mercato e concorrenza – pensavo – dovrà raddoppiare gli sforzi, perché gli studenti abbiano ben chiaro che nel mondo non tutto è rose e fiori e nessun pranzo è gratis. Dobbiamo ripetere che la globalizzazione ha sottratto alla miseria e alla fame centinaia di milioni di persone, che i paesi poveri sono quelli che ne restano ai margini, che le multinazionali spingono verso l’alto il livello degli stipendi e che sono più efficaci di un programma governativo nel diffondere conoscenze e tecnologie. Anche se gli stipendi restano sperequati, il mercato libera diritti e non li concula. Viviamo meglio e più a lungo di quanto non sia mai successo nella storia. Al contempo, però, proprio l’incontro con quegli ex operai mi ha ricordato che il terrorismo non si sconfigge con un programma di «educazione nazionale».
Stimo Valentino Parlato, ma non condivido il dubbio che ha lanciato dalle colonne del «manifesto», che le bombe di Roma e Torino siano la riedizione elettorale della destabilizzazione di oscuri apparati deviati. No, sono due anni che sappiamo bene che in Italia c’è chi lavora intorno a un’ rilancio in grande stile della lotta annata: e il documento dei Nipr si chiude con un appello rivolto proprio ai responsabili del delitto D’Antona, le Brigate Rosse-Pcc. Che i terroristi rimproverino ai governi di centro sinistra di avere razionalizzato i contratti di lavoro e il diritto di sciopero, per me è motivo di orgoglio. Ma la lezione del passato è che nessuna, per quanto legittima, diversità d’opinioni sul conflitto sociale può indurre la sinistra democratica a sottovalutare la necessità di affrontare con le armi dello Stato i terroristi. Sotto questo profilo, mi sento meno orgoglioso di quanto vorrei. Dopo l’assassinio D’Antona, forte è stata l’impressione che qualcosa non abbia funzionato: scollature tra le indagini della polizia giudiziaria e l’attività delle procure iterate fughe di notizie che hanno vanificato mesi di indagini. A Torino, è un rischio che inquirenti e forze dell’ordine devono evitare.
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aprile 13, 2001