«Ma sa, caro senatore, le banche non sono sexy». Lo rivedo ancora Enrico Cuccia, nel salone di via Filodrammatici, e il suo sorriso malizioso. Ero andato a presentargli il mio disegno di legge per la vendita delle quote detenute dalle Fondazioni nelle banche conferitarie, basato sul meccanismo dei buoni di acquisto. Pensava che non avrebbe funzionato: le banche, come investimento, non sono sexy, non sono popolari.
Mi sono tornate in mente le sue parole vedendo il repentino balzo in borsa dei titoli delle maggiori banche popolari non appena si è saputo che dovranno abbandonare il modello di governance cooperativo e trasformarsi in società per azioni. Erano diventate popolari? Anche se forse manterranno nella ragione sociale il nome che ricorda la loro diversa origine, stanno per diventare come tutte le altre banche: non popolari.
Un incontro ravvicinato
Nel 2009 Assogestioni mi aveva proposto come consigliere di amministrazione della Banca Popolare di Milano in una lista che poi confluì in quella del presidente uscente, Roberto Mazzotta.
Vinse la lista che portava come presidente Massimo Ponzellini. Io fui eletto come consigliere della lista di minoranza. Fu il mio incontro ravvicinato con una popolare. Durò dall’aprile del 2009 al giugno del 2011, quando diedi le dimissioni.
Roberto Mazzotta aveva lavorato a un progetto societario: fondere BMP con la Popolare di Emilia Romagna di Modena. Lo schema era quello solito con cui si aggregano le popolari: l’acquisita viene trasformata in SpA, l’acquirente resta con la governance che aveva, popolare con voto capitario. Schema collaudato, ma usato, fino a quel momento, per i salvataggi. Così era stato per la storica (fondata nel 1871) Popolare di Novara: che popolare lo era davvero, alcune sue assemblee si svolgevano nello stadio. Incappata poi in gravi disavventure, era stata trasformata in SpA per poter essere acquisita dalla Popolare di Verona, che a sua volta confluirà poi nel Banco Popolare. Quella progettata da Mazzotta invece sarebbe stata una fusione tra due banche entrambe in buona forma, entrambe circa della stessa stazza. Originale il percorso studiato per il matrimonio: una holding cooperativa con sotto le due banche autonome e indipendenti; principio di pariteticità con una governance tradizionale e non duale; fusione senza premi di maggioranza, così da evitare il problema di definizione dei concambi. Certo, c’era da risolvere il nodo della composizione del board della capogruppo: non era unanimemente condivisa la proposta di assegnare il 50% dei consiglieri alla Milano scelti con il sistema capitario mentre la componente modenese avrebbe dovuto essere selezionata da un ente validante non meglio definito. Si era già pensato anche al nome, per distinguere fin dalla sigla questa banca, e la logica da cui nasceva, da quelle formate da altri recenti matrimoni bancari: «Banca delle Regioni», brand inventato e registrato dal presidente di BPER Guido Leoni, e mai utilizzato. Visite a Banca d’Italia, pareri degli advisor, riunioni dei CdA, roadshow territoriale di Mazzotta per spegnere i possibili focolai di resistenza al progetto di fusione.
Che divampano, eccome: a giugno 2007 un volantino delle principali sigle dell’istituto milanese (FABI, FISAC-CGIL e FIBA-CISL) sancisce il no alla fusione sostenendo che «mancano totalmente i presupposti». E anche a Modena si manifestano perplessità.
Mazzotta non si perde d’animo: ad agosto, al meeting di Rimini ribadisce la sua fiducia nel progetto: «Considero che sia di straordinaria forza e qualità; siccome spero nelle virtù della ragione… mai dire mai… avevamo cercato di farla, siamo inciampati in maniera abbastanza stupida, speriamo di poter tirare via i sassi che abbiamo trovato per strada… avere in Italia banche interregionali, che per storia sono le Popolari, è un elemento importante».
Più importanti sono gli interessi che, non senza qualche ragione, temono che le fusioni portino a perdere, o a dover condividere con altri, i vantaggi di cui essi godono. A Milano sono i sindacati che con i pullman portano a votare migliaia di azionisti, e che agli sportelli raccolgono migliaia di deleghe in bianco dai clienti; a Verona sono i gruppi di potere che hanno rapporti molto stretti con la banca. L’era Mazzotta si chiude dunque nella generale ostilità dei sindacati, che non perdonano al Presidente questo progetto di fusione.
Alla successiva assemblea del 2009 di BPM arriva prima la lista che porta come presidente Massimo Ponzellini; io entro nel CdA nella lista di minoranza di Roberto Mazzotta, unico consigliere espresso dai fondi.
Nel settembre del 2010 ha inizio una verifica ispettiva della Banca d’Italia, che si conclude il 4 marzo 2011. A giugno vengono consegnati solennemente ai consiglieri, uno per uno, i rilievi su quanto riscontrato. Contengono, oltre a numerosi punti relativi a specifici fatti gestionali, anche raccomandazioni di tipo societario: procedere ad un aumento di capitale; portare da tre a cinque il numero delle deleghe che ogni azionista può raccogliere.
Per rispondere alla prima, il Presidente propone un aumento di 600 milioni; la maggioranza del Consiglio respinge la proposta e il consigliere Francesco Bianchi rassegna le dimissioni. Invece la proposta relativa all’aumento delle deleghe è fatta propria dal Consiglio, che decide di portarla all’assemblea straordinaria.
L’associazione «Amici di BPM», che raduna i soci dipendenti e che ha designato e nominato la maggioranza del Consiglio di Amministrazione, scrive una lettera ai suoi associati, invitandoli a respingere in assemblea la proposta. Io rendo noto che, ove l’assemblea dovesse rispingere la proposta, mi sarei dimesso, invitando tutto il CdA a fare altrettanto. Ne avevo una ragione speciale, essendo stato eletto dai fondi, e ritenendo che questa proposta fosse nell’interesse prima di tutto della banca e quindi dei suoi azionisti; ma anche che un CdA che vedesse la propria proposta bocciata dall’assemblea, debba trarne le conclusioni.
Le associazioni basano il loro potere sulla loro capacità di organizzare i soci e di portarli in assemblea: i famosi pullman.
Aumentare il numero delle deleghe facilita la formazione di chi vuole organizzare un’opposizione. È evidente tuttavia che il meccanismo è indiretto e debole, ben lontano dalla chiarezza del sistema «un’azione un voto». Presenta anche delle controindicazioni: le associazioni dei dipendenti hanno anche la posizione di vantaggio di poter raccogliere le deleghe allo sportello, meccanismo che potrebbe perfino indurre a operazioni truffaldine, tipo stampare deleghe false. Il fatto che le associazioni da un lato si schierassero così decisamente contro la proposta, dall’altra accettassero la proposta di un aumento di capitale di 1.200 milioni, la dice lunga su quanto esse siano sensibili su questioni attinenti alla governance della Banca. I sindacati non indietreggiano di fronte alla proposta di un aumento di capitale che richiede ai soci di versare 324 milioni, in media 6.100 euro a testa, per non diluirsi (il mercato dovrà mettere gli 876 milioni, per arrivare al totale di 1.200 milioni). E invece respingono una proposta della Banca d’Italia, e proprio mentre i giornali, anche in relazione ad alcun finanziamenti discussi, rilanciano la parola commissariamento come una possibilità concreta.
Il 73% del capitale della Banca è di proprietà di azionisti non soci, che non hanno diritto di voto; possono votare i 53.000 soci, persone fisiche o giuridiche, che possiedono il 27% del capitale. Ma a controllare il voto in assemblea sono meno di 8.700 soci, con il 4% del capitale, organizzati nell’Associazione Amici. Una leva che fa impallidire quella delle piramidi con cui il nostro capitalismo con poco capitale esercita il controllo. Anche qui si verificano conflitti di interessi. Ma con una fondamentale differenza: chi è al vertice di una piramide rischia l’azione di responsabilità dei soci, le sanzioni delle autorità di regolazione e giudiziarie; qui invece i vertici dell’Associazione Amici, che condizionano gli organi della Banca, non corrono nessun rischio, neppure di sanzione. Non solo eleggono la maggioranza del Consiglio, ma hanno un improprio coinvolgimento nelle scelte gestionali.
Naturalmente non fu degnata neanche di una contestazione la proposta che feci nel preannuncio delle mie dimissioni: trasformare la Banca in società per azioni, e fare della cooperativa il socio di riferimento. Un’autentica cooperativa, a cui i soci possono apportare le proprie azioni, che distribuisce al proprio interno gli utili secondo i principi cooperativi. Questa cooperativa assumerebbe il ruolo di socio di riferimento, ancoraggio della stabilità proprietaria. Per questo, basta molto meno del 27% del capitale cui si arriverebbe se tutti i 53.000 soci aderissero: anche con meno del 10% le fondazioni bancarie sono determinanti per gli assetti del sistema.
Era anche chiaro che i poteri della Vigilanza di Banca d’Italia erano inadeguati a una trasformazione così radicale: viste le opposizioni che si sono manifestate contro il decreto del governo, anche coloro che allora avevano sperato in un intervento più incisivo dell’Istituto devono oggi riconoscere che provare ad andare oltre avrebbe potuto attirare critiche non ingiustificate. L’aumento delle deleghe è uno strumento del tutto inadeguato, ma è anche vero che commissariare la banca per cambiarne la governance, sarebbe stato del tutto improprio e ingiustamente dannoso per la banca.
A cambiare la governance di provò anche Andrea Bonomi, che uscì vincitore dalla battaglia con Matteo Arpe all’assemblea del novembre 2011. Ebbe successo nel migliorare la gestione, ma quanto a risolvere il problema di fondo, anche lui fu sconfitto: l’assemblea del dicembre 2013 elesse a Presidente Piero Giarda.
Più chiaro di così non si può. Il problema delle popolari non è risolvibile per linee interne: ci vuole una legge.
Fiat lex
Che il problema potesse essere risolto solo con un intervento legislativo l’aveva già detto Draghi, da governatore della Banca d’Italia nelle sue considerazioni finali del 31 maggio 2011:
Alle banche popolari quotate servono regole per un controllo più efficace dell’operato degli amministratori, un maggiore coinvolgimento degli azionisti in assemblea anche mediante deleghe. Come ho già osservato in passato, un intervento legislativo è necessario. La sconfitta dei privilegi con la riforma delle Popolari e modifiche statutarie, che pure abbiamo sollecitato, non possono essere risolutive.
Ma il Governo non si mosse: e c’è da ritenere che avrebbe continuato a fare orecchie da mercante se non fosse intervenuta la BCE. Con l’entrata in vigore della Banking Union, con la presa in carica della vigilanza sul sistema bancario da parte del Single Supervisory Mechanism (il 4 novembre 2014), con l’esito degli stress test, è partito un processo che ha messo il Governo in condizione, o forse persino nella necessità, di procedere per legge alla riforma delle popolari.
Parte proprio di lì, dalla rivendicazione delle ripetute richieste della Banca d’Italia, la testimonianza che il suo Direttore generale Salvatore Rossi rende alle Commissioni riunite Finanza e Attività Produttive della Camera dei Deputati, il 12 febbraio 2015. Nel suo intervento egli tratta prima gli aspetti generali del tema: effetti positivi attesi, effetti negativi
temuti e analisi della loro fondatezza; e poi gli aspetti tecnici del provvedimento.
Effetti positivi
L’obbiettivo che ci si attende dalla riforma è di mettere in condizione le maggiori banche popolari «di aumentare il loro capitale nella misura e soprattutto con la rapidità» che le circostanze potrebbero richiedere, accedendo senza ostacoli o ritardi al mercato dei capitali. Questo è l’obbiettivo prioritario: ottenere che le banche «siano costantemente dotate» di un cuscinetto per assorbire perdite potenziali, cuscinetto che la crisi ha dimostrato dover essere di dimensioni maggiori di quello che si pensava. Dove le parole chiave sono «costantemente» e «potenziali»: cioè essere sempre pronti ad affrontare quello che potrebbe accadere.
L’esperienza della crisi ha portato l’Europa a darsi nuove norme di regolazione. Il Sistema di vigilanza comune entrato in funzione nell’area dell’euro «pone al suo centro il tema del capitale» quale è messo in evidenza dall’esercizio del comprehensive assessment svoltosi nel 2014. Se le circostanze imponessero a più banche di ricapitalizzarsi contemporaneamente, bisogna evitare che alcune banche abbiano svantaggi competitivi nell’adire a un mercato sempre più concorrenziale e selettivo.
«La forma giuridica cooperativa è uno svantaggio competitivo»: Rossi è lapidario nell’affermarlo. Se il capitale richiesto è ingente, e deve essere reperito con urgenza, il voto capitario e i limiti al possesso azionario rendono l’investimento poco attraente a investitori istituzionali che vogliono tutelare il loro investimento e per questo vogliono contare nelle scelte gestionali.
Bisogna poi ricordare che, anche se l’Italia è in ritardo nel recepirla, esiste una normativa europea per il risanamento e la risoluzione delle crisi bancarie. In base ad essa, se non si risponde prontamente alla richiesta di aumentare il capitale, può scattare il meccanismo di «risoluzione»: il bail-in di azionisti e creditori diversi dai depositanti che vengono chiamati a ricapitalizzare, condizione perché il sostegno dello Stato, sia pure come extrema ratio, non sia considerato aiuto di stato.
A settembre 2014 la situazione, quanto a patrimonio di miglior qualità era la seguente: banche popolari maggiori 10,6%; le altre sei banche italiane «significative» 11,7%; altre banche europee, e già un anno prima, 12,1%. Non solo ma quel 10,6% è stato raggiunto in extremis, grazie alle misure di rafforzamento «faticosamente prese nel 2013 e 2014 dietro insistenza della Banca d’Italia». Siccome i dati che sono stati resi pubblici riguardavano la situazione a fine 2013, la percezione in Europa è che le maggiori banche popolari italiane siano state rimandate, causando così un danno reputazionale non solo a se stesse ma all’intero sistema italiano.
«Il patrimonio va commisurato ai rischi». La crisi ha lasciato i segni nelle dieci maggiori banche popolari: il 18,7 % di partite deteriorate, due punti sopra la media; 12% di copertura con accantonamenti in bilancio, dieci punti meno della media; 2% di ROE (ritorno su capitale e riserve) inferiore a quello già basso del sistema.
Spiega il Direttore Generale di Banca d’Italia:
Rispetto alla tradizionale impresa capitalistica incorporata in una società per azioni, il modello cooperativo espone, nelle moderne economie avanzate, a tensioni fra l’originario spirito di mutuo servizio e l’esigenza, soprattutto se l’azienda ha raggiunto dimensioni cospicue, di stare su mercato in un contesto concorrenziale, a ciò orientando la gestione aziendale.
Questo è il dato strutturale, questa è la ragione del mutamento di forma societaria. Bisogna evitare i conflitti di interesse tra soci e amministratori, che introducono elementi di opacità, quando non si configurano come esplicita ingerenza nelle scelte gestionali. Nella recessione e nella crisi del debito sovrano, Bankitalia è dovuta intervenire per sanare situazioni di gravi difficoltà: «L’egemonia prolungata e incontrollata di una singola figura o di un gruppo di potere espressione di una minoranza», hanno acuito tali difficoltà.
Tale è la tipica situazione delle banche popolari, dove alle assemblee partecipa poco più di un socio su dieci (media 2014), dove migliaia di persone devono essere mobilitate come se fosse «una vera e propria campagna elettorale, con ovvi rischi di clientelismo». E in futuro sarà sempre peggio, perché gli standard organizzativi e di governance che la vigilanza europea richiederà, saranno sempre più stringenti nei prossimi anni.
Effetti negativi temuti
Banche cooperative esistono in tutta Europa, in molti paesi rappresentano il 30% dei prestiti, in Germania il 20%, soprattutto verso le piccole e medie imprese. Però il modello complessivo è diverso: a banche simili alle nostre BCC si aggiungono associazioni, banche regionali e istituti centrali che operano su larga scala.
Da noi invece oltre alle BCC ci sono le banche popolari, e anche queste formano due gruppi distinti sia per caratteristiche dimensionali, sia per quelle dell’attività svolta. Le minori, radicate nel loro territorio di origine, nelle quali è ancora forte il rapporto con la realtà locale; le maggiori, formate per aggregazione di varie banche, di norma quotate in Borsa, che operano su scala nazionale, e dove «il legame cooperativo tende a diventare più debole, fino a scomparire».
Le BCC sono simili al modello europeo, e la norma italiana mette vincoli alla loro espansione territoriale; ma non hanno le strutture in rete centralizzate e integrate delle simili estere. Le popolari ancorché nate nel XIX secolo a imitazione dei modelli d’Oltralpe, non sono paragonabili con le forme di credito cooperativo europeo, e hanno perso molto dello spirito cooperativo originario.
Non sono più «banche del territorio». Con questa locuzione si intendono banche che raccolgono risparmio ed erogano credito in un territorio circoscritto, rappresentando una quota importante dei prestiti erogati in quel territorio: è un legame reciproco, basato sulla fiducia da un lato e sulla conoscenza dall’altro. La dimensione del fenomeno è rilevante, 300 banche del territorio che rappresentano il 4% in termini di attivo e il 6% in termini di prestiti alle imprese.
Ma non è questo il modello delle 10 maggiori popolari italiane, che in media hanno sportelli in 60 province, una diffusione sul territorio nazionale pari a quella delle prime 3 grandi banche, il cui raggio d’azione è di 70 province. Il relationship lending può presentare aspetti favorevoli, perché riduce il costo dell’informazione sul cliente, e quindi il rischio.
Naturalmente se anche i clienti hanno la stessa caratteristica, cioè se anche le loro sono «imprese del territorio». E i risultati si sono visti durante la crisi globale, dove la bassa esposizione alla volatilità della raccolta all’ingrosso e il minore ricorso a strumenti finanziari sofisticati hanno protetto le banche, e dove il disporre di più informazioni ha attutito le conseguenze del credit crunch che invece ha caratterizzato le banche di dimensione maggiore. Questo è il lato positivo: quello negativo è la minore diversificazione dell’attivo, che le rende intrinsecamente fragili, e incapaci di dare risposta alla richiesta di ammortizzatori economici. «Il territorio è un cliente molto esigente in tempi difficili e raramente restituisce quello che ha ricevuto nei tempi buoni».
C’è poi, al solito, la paura del taglio dei posti di lavoro. Nel settore bancario nei 5 anni dal 2007 al 2013 l’occupazione si è ridotta del 10%, 30.000 persone su 300.000: la tecnologia cambia il modo con cui si usa la banca, a questo conducono le economie di scala, che sono la ragione per integrarsi. Potersi fondere è proprio una delle ragioni per cui si fa la riforma della governance. Rossi non lo dice, la riforma non lo incentiva, ma oltre a ciò c’è anche, in prospettiva, il maggior ricorso delle imprese a canali di finanziamento non bancari.
Rossi si limita a osservare che le aggregazioni, e le riduzioni di organici che esse necessariamente comportano, non sono un fine, ma un mezzo per avere banche più solide e più stabili.
L’esperienza di questi ultimi difficili anni hanno mostrato chiaramente come la prima e più seria minaccia ai livelli occupazionali nel settore bancario non derivi tanto dalle azioni per aumentare la produttività e contenere i costi digestione di una banca, quanto dalla mancanza di tali azioni, che finisce per porre quella banca in una condizione di crisi.
Cosa, aggiungiamo noi, che ben si può dire non solo del sistema bancario ma del sistema industriale nel suo complesso.
Alcuni interrogativi tecnici sulla riforma
«La soglia degli 8 miliardi è fissata su base consolidata per i gruppi bancari ed è calcolata rispetto al totale dell’attivo». Una norma chiara e oggettiva, che si ispira a due criteri: rispondere al principio di neutralità rispetto all’articolazione dell’impresa; porsi in linea con i più recenti indirizzi della regolamentazione, che considera questo l’indicatore in grado di ricomprendere la complessità dell’intermediario e la sua rilevanza rispetto al sistema.
Un numero non scelto a caso ma che risulta dalla tassonomia delle 37 banche popolari italiane, che presenta una distinzione netta tra le prime 10, con attivi a doppia cifra, e le restanti 27. Il gruppo delle 10 comprende le 7 soggette alla vigilanza europea e tutte le quotate.
Le banche avranno 18 mesi di tempo dall’emanazione delle disposizioni attuative per trasformarsi in società per azioni, o ritornare al di sotto della soglia. La scelta spetta all’assemblea, e la legge fissa i quorum costitutivi e deliberativi. In mancanza di questo interverrà la Banca d’Italia. La norma è rispettosa del principio di proporzionalità rispetto agli obbiettivi di tutela del risparmio e di stabilità del sistema finanziario. Per le banche sotto la soglia la legge salvaguarda i tratti essenziali del modello cooperativo, voto capitario, limiti al possesso azionario, clausola di gradimento ai nuovi soci.
Però cerca comunque di favorire l’efficienza e l’accesso al mercato dei capitali. Così le banche potranno emettere strumenti finanziari partecipativi, che possono anche conferire diritti rafforzati, ad esempio la nomina di una parte degli amministratori. Si conferma che la maggioranza degli amministratori debba essere scelta tra soci cooperatori, e si innalza il limite delle deleghe da 10 a 20, per favorire un coinvolgimento più ampio possibile della base sociale. Misura sull’efficacia della quale il sottoscritto si permette di esprimere qualche dubbio.
Nel corso del dibattito si sono avanzate varie ipotesi emendative: mantenere il voto capitario limitandosi a dare agli investitori istituzionali una rappresentanza negli organi societari proporzionale al numero di azioni possedute; cosa però che non garantisce l’obbiettivo vero della riforma, mettere le maggiori banche popolari in condizione di accedere al mercato dei capitali. Le proposte emendative si dispongono su tre linee: limiti al possesso azionario, limiti al diritto di voto, maggiorazione per chi è socio da lungo tempo al momento dell’entrata in vigore della legge. Le prime due sono chiaramente contrarie alla finalità stessa della riforma. La terza, le cosiddette loyalty shares, sono già consentite alle società per azioni, ma entro limiti che non compromettono la contendibilità delle aziende, che in questo caso è invece il (neppur tanto) segreto obbiettivo di chi le propone. In ogni modo queste norme dovrebbero essere derogabili facilmente e rapidamente in caso di necessità, essere volte solo a facilitare la transizione, l’obbiettivo essendo sempre quello di ripristinare «la piena proporzionalità tra proprietà e controllo, uno dei principali vantaggi della società per azioni». La conclusione del Direttore Generale di Bankitalia è perentoria:
Poter adeguare, al bisogno, il capitale in modo cospicuo e rapido è oggi per una banca prerequisito fondamentale per la stessa sopravvivenza. Può essere necessario farlo accedendo tempestivamente al mercato dei capitali, nel qual caso non bisogna avere vincoli impropri. Per intermediari della dimensione e della complessità delle 19 maggiori popolari italiane la forma societaria cooperativa è un handicap che va rimosso al più presto.
Nel suo intervento Rossi non ha voluto neppure accennare all’opacità che può caratterizzare i rapporti di vicinanza. Inutile innestare elementi di difficile prova e di facile appiglio per la contestazione, in un ragionamento tutto positivo: ma noi sappiamo che queste cose esistono, e non solo in Italia. E quindi chiuderemo con le sue parole: «L’approvazione della norma è auspicabile, quindi, non perché lo impongano i regolatori o i mercati internazionali: perché lo suggerisce il buon senso».
Un paragone citato a vanvera
Banche popolari sono presenti in molti Paesi d’Europa, e sovente ad esse, in particolare a quelle tedesche, si fa riferimento parlando di quelle italiane. C’è in effetti una certa somiglianza negli obbiettivi, nel tipo di clientela e di rapporto con essa. Invece, dal punto di vista della governance, cioè proprio quella a cui più sovente si fa riferimento, le differenze sono macroscopiche e il paragone del tutto fuori luogo. Oltretutto non sarebbe un modello da prendere ad esempio, dato che le Landesbanken sono oggetto di giustificate critiche per i loro risultati economici e per la solidità dei loro asset patrimoniali. Per questo è utile investigarlo e chiarire un equivoco che ricorre ripetutamente nel discorso pubblico. Lo si fa sulla base di un accurato e completo saggio di Giovanni Boggero, da cui è ampiamente tratto quanto segue, e che qui cordialmente si ringrazia.
Il sistema bancario tedesco è storicamente incardinato su tre pilastri fondamentali: privato, pubblico e cooperativo. Tale segmentazione istituzionale è riflessa in un panorama competitivo che si snoda per gruppi separati e che impedisce ancora oggi le aggregazioni tra banche pubbliche e banche private. Di fatto, però, sin dagli anni Ottanta, banche private e banche pubbliche concorrono tra loro, a fronte di un core business ormai praticamente indifferenziato. A dispetto degli istituti privati, quelli di natura pubblicistica e cooperativa non hanno come scopo principale la massimizzazione del prodotto e la distribuzione di utili agli azionisti, bensì finalità sociali quali l’erogazione di credito a condizioni agevolate per ampie fasce della popolazione, nonché l’assistenza creditizia alle istituzioni territoriali. Il settore pubblico ha una quota di mercato pari a circa il 40% del totale in termini e sostanzialmente coincide con il settore delle casse di risparmio.
Questo sistema si articola su tre livelli:
casse di risparmio propriamente dette (Sparkassen);
banche regionali (Landesbanken);
federale (Dekabank).
All’interno del sistema bancario pubblico va annoverato anche il xFV (Kreditanstalt fair Wiederaufbau) istituto di finanziamento per la ricostruzione e lo sviluppo fondato nel 1948, del tutto affine alla nostra Cassa depositi e prestiti. Partecipato da Bund (80%) e Länder (20%), esso si occupa di coordinare gli interventi nel settore pubblico nonché di approntare strumenti di garanzia e prestiti per le PMI.
Casse di risparmio
Sono enti autonomi di diritto pubblico dal 1931. Alle casse non può essere concesso capitale da parte degli enti territoriali cui fanno capo(comuni, distretti governativi e distretti rurali), giacché la loro capitalizzazione deriva esclusivamente dagli utili maturati, che di norma non possono essere distribuiti. Sono banche universali, capaci cioè di eseguire qualsiasi operazione bancaria, purché rientrante tra quelle di interesse generale, indicate dalle diverse leggi regionali che disciplinano il settore. Di regola sono infatti escluse le attività speculative, quali la compravendita di azioni. Sviluppatesi tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento con lo scopo di garantire il risparmio degli strati meno facoltosi della popolazione, esse fungono anche da forziere a uso e consumo dei comuni (Hausbank), i quali ne redigono lo statuto e attraverso il consiglio di sorveglianza controllano il consiglio di amministrazione; secondo gli intenti originari esse avrebbero infine dovuto fungere da argine a una concentrazione bancaria troppo elevata, quale sarebbe derivata dal libero gioco della concorrenza.
A guidare le Sparkassen è infatti il cosiddetto Regionalprinzip, che sottrae alla competizione gli istituti facenti capo a enti territoriali diversi e fa in modo che i clienti di ciascuna cassa siano in massima parte i residenti della zona stessa in cui essa opera. Fino al 1968 le casse di risparmio hanno inoltre beneficiato di ampi favori fiscali, abrogati poi a seguito delle furiose proteste degli istituti privati. Al 31 dicembre 2008 in Germania figuravano ancora 432 casse di risparmio, in continua diminuzione rispetto all’esorbitante numero originario, dovuto a un problema di eccesso di capacità (overbanking) davvero cronico per il sistema bancario tedesco. Le fusioni hanno a poco a poco alleggerito la frammentarietà del panorama nel corso degli anni. A livello regionale le casse di risparmio sono riunite in associazioni (enti di diritto pubblico), che ne rappresentano gli interessi e ne coordinano le attività.
Banche regionali
Sono anch’esse enti di diritto pubblico dal 1931 ed esercitano tutte quelle funzioni che, in parte per motivi legati a divieti legislativi, in altra parte per ragioni di economicità, non possono essere esercitate dalle Sparkassen. In linea di principio, mentre le casse di risparmio sono attive nel retail banking e nel private banking per il sistema delle imprese medio-piccole locali (il cosiddetto Mittelstand), le banche regionali si occupano di sostenere imprese di dimensioni medio-grandi, svolgendo un’attività identica a quella delle banche commerciali, nonché i Länder nell’adempimento dei propri scopi di politica industriale. A questo proposito alcuni economisti, anche sulla scorta dell’esempio proveniente da altri paesi, si dicono scettici sulla reale necessità che un tale compito sia svolto da banche pubbliche, tanto più che le banche private sono già attive in questo campo e avrebbero quindi un’adeguata esperienza. L’attività di natura privatistica è comunque ormai di gran lunga più ampia di quella pubblicistica. In Baviera la funzione di Hausbank regionale non è peraltro mai stata svolta dalla BayernLB ma dal Landesanstalt fair Wiederaufbau.
A favore delle casse di risparmio le banche regionali svolgono inoltre il compito di bancogiro (Girozentrale), provvedendo alla compensazione di pagamenti e incassi, amministrandone la liquidità e se del caso rifinanziandole attraverso l’e – missione di obbligazioni. Il loro ambito di operatività non è circoscritto ope legis , tanto che alcune di esse sono diventate nel corso degli anni importanti istituti commerciali su scala globale. A differenza delle casse di risparmio, esse sono munite di un capitale di dotazione e quindi sono direttamente partecipate dal Land di riferimento, nonché dalle diverse associazioni regionali delle Sparkassen. Si dà peraltro il caso di partecipazioni incrociate tra Landesbanken.
Ad eccezione di HSH Nordbank AG e di WestLB AG (diventate società per azioni rispettivamente nel 2002 e nel 2003) le altre sette banche regionali oggi esistenti (BayernLB, LBBW, Landesbank Ber-lin, Helaba, NorddeutscheLB, SaarLB, Bremer LB) sono enti di diritto pubblico. Come per le casse di risparmio, anche per le Landesbanken i processi di fusione sono stati assai numerosi negli ultimi anni. L’organismo federale di vertice di cui sono membri tanto le casse di risparmio quanto le banche regionali è il DSGV (Deutsche Sparkassen und Giroverband), la cui mission è quella di rappresentare gli interessi degli istituti pubblici presso il Governo e le autorità di vigilanza.
Dekabank Deutsche Girozentrale
È il principale centro di investimento finanziario delle casse di risparmio tedesche, ne gestisce i fondi comuni e svolge le funzioni di compensazione (clearing) dei pagamenti tra istituti. Attivo nell’asset management sui mercati immobiliari e finanziari, nel mercato dei capitali e nel corporate banking, ha filiali in tutto il mondo.
Le garanzie: situazione fino al 2001
A tutti gli enti summenzionati, fino al 2001, ovvero fino a che non è intervenuta l’inchiesta della Commissione Europea, sono stati applicati istituti di favore volti alla protezione del consumatore (rectius veri e propri privilegi) quali l’Anstaltslast e la Gewährträgerhaftung. Il KFW, non interessato dalla vicenda svoltasi in sede europea, continua a goderne a tutt’oggi.
L’Anstaltslast è il principio consuetudinario, secondo il quale ciascun ente di diritto pubblico deve essere sempre messo nella condizione di espletare la sua missione, attraverso la predisposizione di una base economica adeguata. Di qui, la responsabilità degli enti territoriali (comuni o distretti per le Sparkassen, Länder per le Landesbanken) per le eventuali perdite, nonché l’inassoggettabilità degli istituti garantiti alla disciplina del fallimento. Si tratta, cioè, di una garanzia nei rapporti interni (Innenverhältnis).
La Gewährträgerhaftung è il principio normativo del tutto complementare all’Anstaltslast, in base al quale delle obbligazioni assunte dalle banche pubbliche è responsabile illimitatamente l’ente territoriale di riferimento (il cosiddetto Gewährträger). Si tratta di un ulteriore scudo nei rapporti esterni (Außenverhältnis) contro il rischio di illiquidità e di insolvenza dell’ente. Nella prassi, l’intervento ai sensi del primo ha sempre scongiurato l’esperimento del secondo.
Si ricordi ad esempio il celebre caso della Hessische Landesbank (anche noto come He-laba Skandal), entrata in crisi all’inizio degli anni Settanta a causa di investimenti a dir poco avventati nel settore immobiliare, e tuttavia approvati anche dal presidente della regione del Land nonché presidente del consiglio di sorveglianza Albert Osswald, poi costretto alle dimissioni. Ebbene, al fine di evitare la bancarotta, il governo dell’Assia dovette provvedere, tra il 1974 e il 1976, a versare alla banca ben 2,6 miliardi di marchi dei contribuenti.
È insomma agevole intuire come nel corso degli anni il combinato disposto di queste due garanzie abbia palesemente falsato la concorrenza nel settore bancario, impedendo una corretta allocazione del capitale. Tali guarentigie hanno infatti assicurato agli istituti in questione un grado di solidità e solvibilità fuori dalla norma, incentivando i terzi a intrattenere rapporti con essi piuttosto che con altri istituti privati. Ciò ha peraltro comportato una vera e propria narcotizzazione dei meccanismi di rating, sempre a tutto svantaggio dei concorrenti privati. Alle Landesbanken, infatti, è stato a lungo corrisposto un livello di rating molto elevato, sostanzialmente in linea con quello della Repubblica federale (AAA): in ragio ne del salvagente pubblico, il rischio dell’emittente connesso al rapporto obbligazionario si è infatti sempre mantenuto molto basso. Non stupisce più di tanto, dunque, se nel 1995 le tre agenzie di rating più celebri (Standard&Poor’s, Moody e IBCA) accordavano la tripla A soltanto a otto banche, cinque delle quali tedesche e quattro delle quali pubbliche (BayernLB, SúdwestLB, Helaba, LBBW).
Tutto ciò ha comportato oneri di rifinanziamento sul mercato molto contenuti, data la tendenza dei grandi investitori a cercare sicurezza proprio in tali botti di ferro custodite dall’occhio vigile dello Stato. Le banche regionali, a loro volta, hanno potuto prestare denaro a tassi considerevolmente più bassi di quelli di mercato e dietro minori assicurazioni, nonché intraprendere operazioni finanziarie molto spericolate (in particolare nel settore dei derivati), il cui rischio è sempre stato sostenuto dai contribuenti tedeschi. Il tutto senza contare l’enorme influsso esercitato dalla politica nell’assumere le decisioni. Il caso macroscopicamente più lampante della distorsione a fini politici dell’attività bancaria pubblica risale al 2001 e in particolare allo scandalo della Berliner Bankgesellschaft. La banca, in mano al governo democristiano locale, aveva infatti celato attraverso falsificazioni del bilancio una politica di credito assai disinvolta e clientelare, la quale aveva alimentato la corruzione e prodotto una voragine nei conti dell’istituto. La nuova maggioranza di sinistra fu così costretta a farsi carico del dissesto per circa 21 miliardi di euro, una cifra valutata poi del tutto sproporzionata dalla Commissione, che la definì «un assegno in bianco a copertura delle perdite future».
Garanzie pubbliche: vertenza UE-Germania
Che un simile impianto normativo fosse difficilmente conciliabile con il mercato comune, con le norme sulla libera concorrenza e con gli aiuti di Stato lecitamente erogabili era da tempo sin troppo chiaro. La violazione macroscopica dei Trattati da parte della Germania è però diventata vieppiù palmare, allorché, a seguito dell’approvazione della direttiva comunitaria sul capitale proprio che seguì agli accordi di Basilea del 1988, le banche tedesche furono costrette ad operare aumenti di capitale per soddisfare i criteri inerenti al cosiddetto coefficiente di solvibilità. Quelle private lo fecero attraverso l’emissione di nuove azioni, quelle pubbliche (facenti capo alla Bassa Sassonia, al Land di Berlino, allo Schleswig-Holstein, al Nord-Reno Westfalia, alla Baviera e al Land di Amburgo) attraverso il trasferimento per incorporazione di alcuni enti sottoposti al controllo regionale.
La vicenda ebbe inizio nel 1993 con un esposto dell’associazione federale delle banche tedesche contro WestLB. Quando nel 1997 la Commissione manifestò l’intenzione di aprire un’inchiesta formale, l’associazione delle banche pubbliche insieme con quella delle casse di risparmio minacciò addirittura di far saltare gli accordi sull’Unione Monetaria, pur di non perdere i loro privilegi. Con l’impegno del cancelliere Helmut Kohl si arrivò al compromesso della dichiarazione di Amsterdam, allegata al trattato, a cui però si diede valore indicativo e non vincolante. Nel 1999 la Commissione condannò WestLB a pagare la differenza tra gli interessi pagati e quelli che avrebbe dovuto pagare un investitore privato.
Solo nel 2004 la commissione licenziò analoghe pronunce contro sei istituti di credito regionali, rei di avere incorporato asset facenti capo al Land di riferimento a tassi inferiori rispetto a quelli concorrenziali.
Nel maggio del 2001, Mario Monti firmò lo storico accordo che evitò alla Germania l’avvio della procedura formale di infrazione. La Gewdhrtrdgerhaftung sarebbe stata abrogata, mentre l’Anstaltslast avrebbe d’ora innanzi dovuto soggiacere ai principi di mercato: il proprietario della cassa di risparmio o della banca pubblica regionale sarebbe cioè stato d’ora in poi responsabile limitatamente al capitale sociale previsto dallo statuto. Non è quindi stato vietato il supporto finanziario da parte dei governi, ma è stata sancita l’abolizione della responsabilità illimitata a carico degli enti territoriali e l’assoggettamento delle banche alla disciplina tedesca sul fallimento. Il compromesso dispose anche l’inizio di un periodo di transizione entro il quale Anstaltslast e Gewdhrtrdgerhaftung sarebbero state mantenute, funzionale a un passaggio graduale dal vecchio al nuovo regime.
La fase più delicata della vertenza fu comunque quella relativa all’implementazione della normativa a livello federale e regionale. E questo perché con il venir meno delle garanzie pubbliche (la cui entità come aiuto di Stato è stata calcolata nell’ordine dei 1000 milioni di euro l’anno), le casse di risparmio e le banche regionali pubbliche avrebbero dovuto far fronte a maggiori costi di rifinanziamento come conseguenza dell’abbassamento del rating. Di qui il timore diffuso che, a seguito di un rapido iter di privatizzazione delle banche pubbliche regionali cagionato da gravi problemi di liquidità, il sistema bancario tedesco dei tre pilastri potesse in breve tempo implodere. In realtà le cose sono andate assai diversamente. Innanzitutto, benché fosse stato da più parti ipotizzato un drastico ridimensionamento delle valutazioni sulla solidità delle banche regionali, nulla di ciò si è verificato nella prassi. Il rating è rimasto sostanzialmente stabile fino alla fine del 2006 e questo per quattro ordini di ragioni: in primo luogo perché le garanzie degli enti territoriali rimangono valide per tutte le obbligazioni assunte entro il 2005, ma con scadenza anteriore al 2015; in secondo luogo perché de facto la proprietà statale degli istituti ha continuato a esercitare una sorta di garanzia implicita sulle attività bancarie; in terzo luogo perché l’ampliamento nel 2003 del fondo istituzionale di garanzia (Haftungsverbund) realizzato con mezzi finanziari pubblici in cooperazione con la federazione delle casse di risparmio ha notevolmente contribuito a mantenere basso il rischio; in ultimo, in ragione delle pressioni esercitate da Berlino sui vertici delle agenzie di rating.
Seguirono significative ristrutturazioni, e operazioni di maquillage, tutte le banche operarono corposi aumenti di capitale, attraverso i quali si è venuta a rafforzare la componente di controllo delle casse di risparmio. Ma la crisi finanziaria, già a partire dall’estate del 2007, ha scoperchiato realtà fino a poco tempo prima sottovalutate. Nonostante la supervisione politica nei rispettivi consigli di sorveglianza, le banche pubbliche tedesche hanno concentrato i propri affari su investimenti ad alto rischio e questo non si è verificato, come spesso si ripete sia sui media tedeschi sia su quelli italiani, a causa del venir meno delle garanzie pubbliche e alle conseguenti difficoltà legate ai costi di rifinanziamento. Le Landesbanken erano impegnate in questo genere di attività anche molto prima che la Commissione europea intervenisse e precisamente sin dagli anni Settanta-Ottanta. Nel 1996 WestLB, definita dal settimanale Der Spie-gel come la «cassa rossa dei compagni» in ragione delle sospette contaminazioni tra attività istituzionali e propaganda per il partito socialdemocratico, acquistò la banca di investimenti Panmure uscendone in tutta fretta nel 2003 per le perdite da capogiro fatte registrare da un management certamente inetto e arruffone, ma comunque spalleggiato dai quadri politici locali. Questo per dire che «il fatto che le banche di stato sono colpite così fortemente dalla crisi dei sub-prime non è un caso, è un fatto sistemico» (Hans Werner Sinn). E infatti, come ricorda anche Wolf gang Reuter su Der Spiegel:
Perfettamente coscienti di questa rete di salvataggio, i dirigenti specularono con i soldi delle loro banche, la BayernLB con azioni a Singapore, la Berliner Bankgesell – schaft con l’immobiliare, la WestLB con holding in compagnie inglesi.
Tutt’alpiù l’abolizione delle garanzie avrebbe dovuto produrre l’effetto opposto, riducendo sensibilmente il moral hazard. In realtà, la permanenza di una garanzia implicita legata alla proprietà pubblica delle banche regionali non ha fatto altro che protrarre e consolidare tale status quo. In particolare, come ha sottolineato Hans-Joachim Dú‑
bel sulle colonne del quotidiano Tagesspiegel sono state le pressioni lobbistiche dell’allora Ministro delle Finanze del Nord-Reno Westfalia Peer Steinbrúck a far sì che fino al 2005 le banche potessero emettere obbligazioni garantite, la più parte delle quali finirono proprio negli Stati Uniti. Nulla da stupirsi, dunque, se a causa di investimenti spericolati nei mutui ipotecari americani, IxB e Sachsen LB prima, WestLB, BayernLB e HSH Nord – bank siano state poco dopo le prime vittime tedesche dell’odierna crisi finanziaria. A loro, neanche a dirlo, in parte i Länder di riferimento, in parte il fondo istituito ad hoc dal gabinetto tedesco nel novembre del 2008 hanno accordato generose garanzie che ne hanno scongiurato la bancarotta, facendole così nuovamente precipitare in una situazione ante-accordo di Bruxelles. Chi oggi si oppone pervicacemente a una privatizzazione delle banche pubbliche regionali e a una loro separazione dal sistema delle casse di risparmio, continuando a preferire le ingenti iniezioni di denaro pubblico che alla bisogna lo Stato azionista dispone, ricorda spesso come per risolvere il problema sia in realtà necessario un maggiore e migliore controllo su manager incompetenti. Ma il controllo non è un’entità astratta o metafisica. Tocca sempre a qualcuno in carne ed ossa controllare. Oggigiorno, nelle banche pubbliche ne sono incaricati proprio i politici, considerati migliori custodi per una presunzione fatale e perniciosa. Invero, il problema principale risiede proprio nella lottizzazione politica dei consigli di sorveglianza, come i più recenti accadimenti dimostrano in maniera palmare. Se la soluzione dovesse passare da un ulteriore controllo dei politici da parte di altri politici, verrebbe solamente da chiedersi: quis custodiet ipsos custodes? In questo modo il circolo vizioso sarebbe destinato a non esaurirsi mai, mentre il conto arriverebbe inevitabilmente sempre ai contribuenti.
Confutatis maledictis…
Romano Prodi ha scelto il centro studi della CISL sulle colline di Fiesole, frequentate un tempo da Pierre Carniti e da Franco Marini, per criticare il decreto Renzi di riforma delle popolari. Lo ha fatto, come è suo solito, approfittando dell’occasione per levarsi più di un sassolino dalle scarpe. Assimilando questa riforma alla rottamazione di una storia importante, con chiaro riferimento alla scelta fatta da Renzi di fare eleggere Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica, carica alla quale Prodi non aveva mai pensato, e che, se qualcuno l’avesse invece pensata, avrebbe con fermezza rifiutato. Le popolari, ha detto, «sono un esperimento interessante, unico, che ora si vuole chiudere in un attimo», lasciando in dubbio se l’accento sia sul «chiudere» o sull’«attimo». Tanto per non perder l’occasione di un altro sassolino, fa il paragone con le Landesbanken che sono più politicizzate che da noi, e stanno peggio. In questo avendo probabilmente ragione sui giudizi, ma non sul termine del paragone, come abbiamo visto. D’altra parte le banche sono solo un pretesto, quello che gli interessa è polemizzare con la Cancelliera, e ricordare quello che, da Presidente della Commissione Europea, aveva cercato di fare con Kohl: «Sono l’economista più filotedesco mai apparso in Italia, ma questa politica rovina l’Europa. O c’è un cambiamento radicale o tra qualche anno avremo una nuova Grecia».
Prodi dice anche: «Si discute da 25 anni, poi arriva la valanga. È un rischio che riguarda anche il sindacato e i corpi intermedi». Uno spunto interessante, questo dei corpi intermedi, forse rivelatore, che converrà riprendere.
«È stato un colpo al cuore a tutto il sistema delle popolari», dice Gianni Zonin, presidente della popolare di Vicenza, la settima delle 10. Anche lui lamenta la fine di una storia: «È finito un mondo, cercheremo di far sì che 170 anni di storia del credito cooperativo e popolare non vengano cancellati». Rivendica titoli di merito: «Questo mondo è stato fondamentale per la crescita delle aziende italiane e delle PMI in particolare, non ce lo meritavamo». Riconosce gli errori: «C’è stata una colpevole inerzia da parte del mondo delle popolari». Accenna la difesa: «Avevamo già (sic!) allo studio un progetto di modifica dello statuto, che avrebbe portato a uno scorporo dell’attività bancaria pura, dove alla cooperativa sarebbero rimasti gli asset immobiliari, il patrimonio artistico e alcune partecipazioni, mentre un’altra società, per metà della cooperativa e per metà aperta al mercato, avrebbe gestito il business bancario». Cioè qualcosa di simile allo schema che avevo proposto per BPM, si sa quanto entusiasmo suscitando. Ha stima di Renzi, ma «stavolta non ha ascoltato la voce delle parti interessate, si sarebbe capito meglio che cosa valeva la pena di salvare e che cosa rottamare».
Nel Veneto, di popolari ce ne sono tre, Veneto Banca, Popolare di Vicenza, Banco Popolare a Verona, di tutte la maggiore. A leggere l’elenco dei soci illustri che redige Stefano Righi sul Corriere Economia, vi si trovano praticamente tutte le famiglie industriali del Nord-Est geografico. Se si allarga il panorama a comprendere Bergamo e Brescia (Popolare Commercio e industria, short UBI) e la Popolare Emilia Romagna, con cui ha flirtato Roberto Mazzotta, si ha la mappa del Nord-Est economico.
Anche per loro, la trasformazione in SpA è «un colpo al cuore»? E perché mai? Buone aziende oggi non hanno problemi a finanziarsi, ed è poco credibile che, nella «loro» banca trovassero condizioni più favorevoli. Non sembra che ci sia un premio al controllo che vada perso nella trasformazione forzosa. Per molti di loro si tratterà di investimenti fatti molti anni fa, forse dalla generazione precedente, quando essere soci di una banca del territorio rispondeva a un interesse preciso, e la forma cooperativa aveva un senso. Esattamente come era successo per le Casse di Risparmio nell’Italia centrale dell’Ottocento. Oggi però è difficile che operatori economici così avveduti investano con elevate concentrazioni di rischio, come hanno fatto certe Fondazioni bancarie nelle ex-loro banche. L’investimento in banca avrà rappresentato una quota modesta del loro patrimonio, che rende bene; la banca, ancor più della Confindustria locale, è il punto dove si incontrano senso di appartenenza, orgogli industriali, storie famigliari, vantaggi reputazionali, e, perché no?, interessi.
Sicuramente c’è anche l’idea di fare così qualcosa di utile per il loro territorio: pur essendo i primi a sapere che quello non è più il Piccolo Mondo Antico, dove artigiani e piccoli industriali portano fiduciosi allo sportello i sudati risparmi, certi di trovare una faccia amica nel momento del bisogno.
Con la legge di riforma, quelle diventano «banche in cerca di padrone», per parafrasare il celebre titolo di Fabrizio Barca.
La riforma obbliga a trovare, ricomponendoli, nuovi assetti di controllo. Finisce un mondo, più che della finanza, del capitalismo relazionale. Se il cambiamento suscita tante proteste, vuol dire che nel cambiamento si perde qualcosa. In che cosa consista, non si sa, ma come si chiama sì: beneficio privato del controllo. Che, come si sa, non è solo monetario: o non immediatamente monetario. Finché è andata, è andata: meglio riconoscere, con Giovanni Bazoli, che definire questo come un attacco al modello popolare e al territorio è un errore madornale, e che il decreto si applica a istituti i quali, loro sì, a quel modello non corrispondono più.
È pensando alle piccole e medie aziende cui la trasformazione in SpA di 10 grandi banche, alcune quotate in Borsa, sottrarranno crediti e aiuti, che tanti industriali di successo «sono feriti al cuore»? È per difenderle che si oppongono le rappresentanze dei dipendenti che oggi condizionano scelte gestionali e funzionalità delle «loro» banche? Le banche in generale non sono istituzioni che godano di tenero affetto e solida fiducia: non sono popolari.
Ma il concetto di cooperazione è elemento fondante dei corpi intermedi, attraverso i quali gli interessi, i bisogni, i valori presenti nella società si manifestano sulla scena pubblica; accade in tutte le democrazie avanzate, accade in Italia, dove i corpi intermedi hanno una storia lunga parecchi secoli. E se la scena politica è occupata da uno che assume la disintermediazione come metodo, uno che ha la straordinaria capacità di «arrivare» all’opinione pubblica parlando la lingua degli italiani qualunque, uno che dice «chissenefrega dei sindacati, io parlo direttamente ai lavoratori, chissenefrega di Confindustria, io parlo direttamente alle imprese»: se questa è la situazione politica in Italia, allora la questione delle banche cooperative entra nel cuore della battaglia politica. «Se Renzi è il politico sceso dalla Leopolda per sabotare i corpi intermedi, per provare a creare un’alternativa o una resistenza alla valanga del renzismo il modo migliore è quello di puntare le proprie carte sulla protezione e la rivalutazione del corpo intermedio. Il PdN (Partito della Nazione) contro il PdCI (Partito dei Corpi Intermedi)».Inutile chiedersi se i famosi corpi intermedi sono ancora intermedi, se sono ancora in grado di mediare tra società e politica, se rappresentano ancora qualcuno oltre a se stessi. Giuseppe De Rita può invitare (Corriere della Sera, 16 novembre) a «non demonizzare i corpi intermedi», a concentrare l’attenzione della politica su temi concreti, a riconoscere la «funzione e i meriti del sindacalista di reparto o del dirigente delle rappresentanze datoriali che si spendono per la fidelizzazione degli iscritti, del quadro di partito che si sbatte sul territorio», in sostanza valorizzando chi, ogni giorno, lavora «sul pezzo», su una porzione di società viva e, in astratto, produttiva. Ma qui mica si fa i sociologhi, qui si fa battaglia politica, anzi la battaglia politica: per questo a difendere lo status quo troviamo Matteo Salvini, Stefano Fassina, il lettiano Francesco Boccia, Guglielmo Epifani e Daniele Capezzone, Susanna Camusso, ovviamente, e il ciellino Maurizio Lupi, «lord difensore» delle popolari. Non si capisce la reale forza dell’opposizione alla riforma delle banche popolari se non ponendola nel contesto della opposizione PdCI-PdN e degli argomenti che vengono chiamati in causa.
In primo luogo c’è la difesa della Costituzione più bella del mondo e quindi l’opposizione alla riforma costituzionale e alla legge elettorale, che darebbero tutto il potere a un piccolo capo, saltando pesi e contrappesi, dando a un partito che prende il 40 per cento il diritto di vita o di morte del Parlamento. «Dietro la battaglia delle preferenze c’è la volontà, a destra e a sinistra, nell’area bersaniana come in quella fittiana, di non avere una legge elettorale che premi solo i capilista nominati dal capo del partito e c’è insomma la volontà di avere un sistema come quello delle preferenze che dia alle correnti di bilanciare, all’interno del corpo intermedio del partito, il potere di chi guida il partito».
Strumenti dei corpi intermedi sono stati l’art. 18 e il diritto al reintegro; lo stesso principio mette uno contro l’altro chi vorrebbe che in RAI continuasse un sistema duale, con filtri e cuscinetti, e chi vorrebbe una RAI più legata alla catena di comando del Governo. Corpo intermedio sono i sindacati e la loro storica cinghia di trasmissione. Corpo intermedio è, manco a dirlo, perfino la magistratura. «Tirando ancora questo filo si scopre dell’altro: coloro che temono che l’indebolimento dei corpi intermedi coincida con un indebolimento della democrazia sono gli stessi che temono che un Governo che fa un passo indietro rispetto al mercato sia un Governo che contribuisce a indebolire la democrazia e a lasciare più o meno tutto al caso, al mercato, al fato, all’imprevedibilità».
Corpo intermedio è la Cassa Depositi e Prestiti, intermedio tra la innegabile natura pubblica e la proclamata attività privata. Intermedio quindi in un modo formalmente diverso, ma sostanzialmente paradigmatico di quell’ambiguità che del corpo intermedio è la fatale degenerazione.
Certo, nessuno vuole eliminare o distruggere tutti i corpi intermedi. E non tutti hanno, in passato, mostrato abusi quali quello che il sindacato ha fatto della concertazione, o trasformazioni, quali quella di tante organizzazioni di rappresentanza economico-sociale in strutture burocratiche tendenzialmente autoreferenziali. Ma le banche popolari non si possono chiamare fuori da fenomeni tipicamente italiani, le strade opache del clientelismo, del familismo, dei comitati d’affari incistati nella politica.
… voca me cum benedictis
«Popolari, la riforma è legge», è il titolo del Sole 24 Ore del 25 marzo. E a pagina 2: «Si preparano le fusioni» «BPM perno del riassetto» «Vicenza e Veneto Banca prime a cambiare».
«Le Fondazioni pronte a entrare nelle nuove SpA»: ma guarda tu, chi l’avrebbe mai detto?
Vedremo come andrà a finire. In ogni caso la reazione dimostra quanto il vincolo del voto capitario non soltanto influisse sugli assetti interni alle banche, ma anche impedisse di trovare i propri assetti nel sistema. Assetti entrambi che, a vedere la competizione che si è messa in moto per arrivare per primi ad attuarli, dovrebbero essere più efficienti.
Anche il voto capitario è stato «rottamato», almeno nelle 10 Popolari di rilevanza sistemica. Non di poco conto il risultato che Renzi ha portato a casa, anche nei riguardi dei notabilati annidati nelle sedicenti banche del territorio. Politicamente il colpo al voto capitario va visto insieme al cosiddetto «atto negoziale» del 10 marzo tra il MEF e le fondazioni: memore delle nasate che si era preso Tremonti con le sentenze della Cassazione, Renzi con le Fondazioni bancarie ha usato il pugno di ferro in tema di eccessiva concentrazione nell’allocazione del patrimonio, indifendibili dopo i disastri MPS e Carige, e il guanto di velluto in tema di partecipazione al controllo delle banche, dove evidentemente vuole evitare scossoni.
Eliminare i vincoli che impediscono alle singole banche di organizzarsi al proprio interno e di riaggregarsi sotto la pressione della concorrenza, è tanto più necessario quanto ben più radicali sono i cambiamenti che il sistema bancario tutto, non solo quello cooperativo, dovrà affrontare. Le grandi banche, soggette ai requisiti di capitale imposti dalla banking union, diventano sempre più simili a utility: regolamentazione pesantissima, prodotti standard, margini contenuti. Tutte, grandi e meno grandi, devono affrontare cambiamenti radicali, di organizzazione e di mentalità, di ruolo.
L’organizzazione. Le banche hanno speso delle fortune per informatizzare le procedure. Prima, milioni di linee di codice scritte in linguaggio Cobol. Poi, la migrazione sulla piattaforma web, prima come home banking, adesso come strumento generalizzato di interfaccia, che non solo crea un front office virtuale, ma investe tutto il back office, l’organizzazione dei dati e quella delle persone.
La mentalità. L’e-commerce ci ha abituati a comperare beni e servizi in modi semplici, rapidi, poco costosi. Con il one click di Amazon abbiamo sviluppato una mentalità diversa: le procedure che ci impongono le banche per servizi anche elementari ci appaiono di un’altra era geologica. Lo smartphone diventerà il centro finanziario personale, anche le procedure di investimento possono diventare meno complicate ed essere espletate in mobilità. Che bisogno c’è di andare in una banca, quando in un secondo posso avere caratteristiche, performance, valutazioni di migliaia di fondi nel palmo della mano? Prevale invece nelle banche la cultura burocratica, e gran parte degli investimenti vanno a mantenere la tecnologia attuale. Ma quando sarà diffuso il pagamento con lo smartphone, diventerà per le banche difficile difendere rendite tipo il Bancomat all’estero: c’è la banking union, che senso ha che esistano dei dazi sui trasferimenti di danaro all’interno dell’eurozona?
Il ruolo. Cambierà anche la prima e più importante funzione della banca, quella di fare prestiti, a individui e aziende, e la relativa competenza di assegnare il merito di credito. Big Data ha dimostrato quanti risultati si possano ricavare applicando algoritmi per lavorare sui dati. Per ora questi algoritmi, a quanto ne sappiamo, sono volti alla profilatura di noi in quanto consumatori, ma certamente verranno – vengono? – usati anche per avere informazioni quando si deve decidere un investimento, deliberare un prestito. Ci affidiamo a Big Data per individuare i terroristi prima che colpiscano, per analizzare l’andamento dell’economia di un Paese e per prevederne l’evoluzione: davvero riteniamo che faccia meglio il piccolo mondo antico della cooperazione, che operi meglio la prossimità fisica, la conoscenza personale, con vantaggio per i clienti e per le banche? Si studia come applicare queste tecnologie per la scelta degli investimenti finanziari, e ci
sono venture capital che investono nelle start up che sviluppano i modelli di emotional intelligence.
E poi c’è il grande tema della disintermediazione bancaria. È improbabile che la disintermediazione delle banche nella loro funzione di erogatrici del credito raggiunga i livelli degli USA. Ma la direzione è quella, aumento della quota che passa per il mercato dei capitali, e diminuzione di quella intermediata dalle banche. Il problema rimane lo stesso – attribuire il merito di credito – e vincerà chi avrà i migliori strumenti per valutarlo. Il mercato degli ABS (Asset Backed Securities) è piccolo in Europa, il programma di acquisto della BCE a prima vista non ha avuto grande impatto: in tre mesi sono stati comperati solo 6,4 miliardi di euro. La BCE comperava solo le tranche meno rischiose, e non avrebbe senso, in questo momento, se comperasse tranche più rischiose. Ma il programma contribuirà certamente allo sviluppo di un più efficiente mercato di cartolarizzazione del debito.
Queste sono le sfide, questa è la partita. Per vincere, o anche solo per sopravvivere, alle banche è necessario un cambiamento di mentalità. Stare abbarbicati al vecchio modello cooperativo, pensare che quella sia la forma mentis (si può dire forma societatis?) per sopravvivere potrebbe essere un errore fatale. L’obbligo di cambiare, di societarizzarsi, è una straordinaria occasione per cambiare anche mentalità. Le banche popolari, per la loro dimensione, intermedia tra quella delle BCC e quelle della grandi banche commerciali, per il processo di consolidamento messo in atto, anche per la peculiarità della loro storia, hanno la possibilità di giocarsela bene. Di essere cioè tra coloro che sopravvivranno in questa nuova vita.
Controdeduzioni ai rilievi della Vigilanza
CONTRODEDUZIONI ALLE CONTESTAZIONI ALL’ESITO DELLE VERIFICHE ISPETTIVE CONDOTTE PRESSO BANCA POPOLARE DI MILANO S.C.R.L. DAL 27 SETTEMBRE 2010 AL 4 MARZO 2011
(Estratto)
Spettabile Autorità,
non c’è la mia firma in calce alla risposta preparata dalla dirigenza della Banca alle contestazioni mosse dall’Organo di Vigilanza. Nella riunione del Consiglio di Amministrazione del 7 giugno ho consegnato una nota, letta dal Presidente, messa agli atti e qui allegata, in cui preciso la ragione per cui mi dissociavo dalla bozza, consegnataci nella precedente riunione, e che il consiglio stava per iniziare a discutere: il denial su cui essa è basata. Ora l’impostazione della bozza è stata modificata, ma rimangono la diversa posizione sui problemi di governance e l’assenza di ogni intervento, volto ad adeguarsi ai rilievi dell’Autorità; alcuni, che ho indicato nel mio intervento, e più volte richiesto nel corso della seduta consiliare, potrebbero essere assunti facilmente e subito, come preciserò meglio nel prosieguo. Per questa ragione ritengo necessario inviare una risposta mia alla nota contestativa del 13 aprile 2011 di codesta Autorità.
«Sono stato nominato consigliere di amministrazione di BPM nell’aprile 2009, incluso nella lista presentata da Assogestioni, poi confluita nella lista che faceva capo al dottor Roberto Mazzotta, già presidente della Banca. Ho fatto parte del Comitato di Controllo Interno e del Comitato Remunerazioni fino a luglio 2010.
I doveri fiduciari verso chi mi ha indicato; l’essere stato eletto nella lista del dottor Mazzotta che, nel corso del proprio mandato e nel (ri)presentare nel 2009 la propria candidatura aveva posto al centro del proprio impegno la soluzione dei problemi di governance delle società a voto capitario, specie se quotate; i miei personali riferimenti culturali e politici: sono questi i presupposti per considerare prioritari, nell’esercizio del mio mandato, gli aspetti di governance, di cui quelli gestionali sono una conseguenza. Quello che non mi era noto era lo specifico modo in cui il voto capitario è usato in BPM per dare un «peso predominante delle rappresentanze dei soci dipendenti [...] un loro improprio coinvolgimento nelle scelte gestionali». (Contestazione n. 1). Sono divenuto via via avvertito della degenerazione della cooperazione che si è instaurata in BPM: esiste una governance di fatto, che vede il ruolo preponderante di soggetti associati, senza ruolo istituzionale, senza responsabilità, non sanzionabile. Centrali nel meccanismo di trasmissione sono, in ambito CdA, il comitato remunerazioni, in ambito operativo la direzione del personale. Il «funzionamento del Consiglio [...] non soddisfacente» (punto 6 dei rilievi) è la conseguenza di questo stato di cose. I dati forniti in sovrabbondanza al CdA, ma senza graduazione di importanza, senza sufficiente presidio su aree fondamentali, ad esempio i finanziamenti, contribuiscono a creare opacità verso le questioni strategiche e i problemi di fondo. Credo di avere agito per contrastare le manifestazioni del macroscopico conflitto di interessi in capo alle organizzazioni che di fatto controllano la banca. Ex post appare chiaro che si poteva fare di più: si deve però anche tener conto dei limiti oggettivi per consiglieri di minoranza che ritengono proprio dovere lavorare nel consiglio in cui sono stati eletti.
Mi sia consentito rileggere la mia attività sulla base dei verbali delle riunioni anche se questi ovviamente riportano solo gli interventi più organici, e non dànno conto delle dinamiche con cui si esprimono opinioni e si formano consensi. E organizzarne la presentazione per aree tematiche: governance, personale, gestione, profili di rischio, iniziative a breve.
Governance.
Già predisponendosi la risposta alle precedenti osservazioni dell’Organo di Vigilanza, rilevavo un «modo abbastanza macchinoso e talvolta poco chiaro di porsi [...] sintetizzabile in espressioni del tipo sì, ma… oppure no, però…, che potrebbero forse essere condivise se seguite da domani farò». (9/3/2010 punto 2).
Nella successiva riunione del 23/3/2010 il tema dei rapporti con l’Organo di Vigilanza e della governance era oggetto di aperta discussione, partendo da una lettera presentata insieme ai colleghi Mazzotta, Lonardi, Fusilli. In essa i «non facili rapporti con i Regolatori di vigilanza e di mercato» vengono ricondotti «al problema di fondo, quello della governance della banca»; e si denuncia il fatto che «mancando le riforme, una minoranza organizzata di soci vuole continuare ad esercitare il controllo di fatto sull’Assemblea, sugli Organi Statutari e quindi sugli indirizzi e sull’andamento operativo della Banca e del Gruppo».
La resistenza a ogni cambiamento della governance si è notata anche discutendosi dell’eventualità di acquisire la Banca del Monte di Parma: la possibilità di aprire il capitale a un soggetto come la Fondazione MP veniva da alcuni colleghi considerata ragione preclusiva dell’acquisto. (12/10/2010 punto 1). Dato che l’intervento delle Fondazioni è uno dei mezzi che si stanno prospettando per risolvere il problema della governance nelle popolari, ritengo «fondamentale capire i motivi alla base delle perplessità ad avere la Fondazione MP nella compagine sociale».
Sensazioni di disagio per il funzionamento degli organi statutari, in particolare del comitato esecutivo sono diffuse e condivise. I verbali della seduta del 18/01/2011 riportano le osservazioni dei colleghi Bianchi e Fusilli soprattutto per il cattivo o mancato funzionamento del Comitato Esecutivo. Per il vicepresidente Artali, «il comitato esecutivo potrebbe adeguatamente supportare… l’organo consiliare, sempre a condizione di una sua rinnovata valorizzazione». Critiche che metto per iscritto anche nei moduli di autocertificazione, a inizio marzo 2011.
Personale.
Nel comitato remunerazioni, trovo una situazione di opacità e di totale chiusura. Ogni volta che si accenna all’introduzione di qualcosa che potrebbe sembrare un sistema di remunerazioni incentivanti si alza la barriera: sarebbe in contrasto con lo spirito della cooperazione. Dopo poco più di un anno, preso atto dell’inutilità di una contrapposizione frontale, ritenendo che il CdA sia la sede propria per modificare situazioni che hanno origine nella governance, chiedo di essere sostituito.
In diverse occasioni esprimo dissenso su alcune decisioni del consiglio di amministrazione che mi paiono rispondere a logiche riferibili alle varie componenti delle associazioni. (Nomine di vice direttori del personale il 21/7/2009 punto 5; nomine nelle società partecipate il 29/9/2009 punto 3).
La banca ha adottato un «piano di solidarietà» finalizzato alla riduzione del personale del gruppo. Poteva essere l’occasione «non solo per tagliare i rami secchi, ma per una reingegnerizzazione dei processi». Ma di fronte alle evidenti contraddizioni, ribadisco «di non credere, pur con il massimo rispetto per il sistema di governo cooperativo, a modelli in cui il corpo sociale rappresentato dall’assemblea dei soci, il management e i dipendenti procedono senza conflitti e con perfetto equilibrio verso il comune obiettivo» e mi astengo in sede di delibera. (27/10/2009 punto 4).
Il piano di solidarietà prevede una corsia preferenziale per i figli dei dipendenti, creando ovvi problemi di equità e di efficienza: richiamo la «necessità di un maggiore bilanciamento tra le assunzioni di figli di ex dipendenti e quelle riferite a esterni, in quanto entrambe sono utili all’azienda». (22/12/2009 punto 3).
Esprimo voto contrario alla proposta di assegnazione del bonus ai dirigenti per l’esercizio 2009: prima ancora e a prescindere dal merito, ciò che appare incongruo è il metodo per l’assunzione delle relative decisioni, «per i tempi istruttori non adeguati, per la mancata definizione di criteri chiari di valutazione e per la scarsa organizzazione dei lavori». (29 giugno 2010, punto 12).
Propongo (18/01/2011 punto 2) di aprire «un approfondimento/confronto coi colleghi… [sulla] politica del personale… [evidenziando] come la selezione e remunerazione delle risorse abbiano oramai acquistata una valenza strategica e come tali [vadano] analizzate e definite».
L’insoddisfacente funzionamento dei servizi informatici ritorna sovente nelle riunioni consiliari, è oggetto di specifici rilievi da parte dell’Autorità di Vigilanza. Rivelatrici a questo proposito le trattative con Credit Mutuel sulla Bancassicurazione, che ha nel proprio sistema informatico un vantaggio competitivo. Nel determinare il fallimento della trattativa, la resistenza ad affrontare problemi di personale, anche e soprattutto nel settore IT, appare ex post aver giocato un ruolo maggiore di quanto sospettassi nel mio intervento nella riunione del 27/10/ 2009, punto 3.
Gestione.
Il giudizio (contestazione n. 6) di un «funzionamento del Consiglio… non soddisfacente», di una «insufficiente cura ai profili tecnici e all’operatività core, anche in conseguenza di informative non sempre esaurienti e tempestive da parte dell’esecutivo» è condiviso. Come già detto, la gran copia di dati non accompagnata da una lettura che evidenzi le criticità, ritarda la presa di coscienza della situazione reale; rivelano una dirigenza preoccupata di difendere le proprie posizioni anziché di mettere in atto misure correttive.
Il fatto più significativo in sé e per le conseguenze che ne sono scaturite, è l’episodio dell’aumento di capitale da 600 milioni di euro, discusso il 29/3/2011 e preceduto da un seminario a porte chiuse. Ho sostenuto l’aumento di capitale, portando una pluralità di argomenti in diversi interventi. Ho preteso che si votasse, e il risultato ha fotografato la divisione all’interno del consiglio. La proposta del Presidente è stata bocciata e il collega Bianchi, che anche lui aveva votato a favore, si è dimesso. Dopo essermi consultato con il Presidente di Assogestioni, decido di non farlo.
Iniziative a breve.
Come accennato all’inizio, per rispondere ad alcuni dei rilievi dell’Organo di Vigilanza, ci sono iniziative che possono essere prese immediatamente dal CdA. Questo servirebbe anche a dare significato positivo agli importanti fatti avvenuti dopo la bocciatura in CdA della proposta di aumento di capitale da 600/800 milioni, e sostanza all’asserita volontà di operare in discontinuità con il passato.
Le dimissioni del consigliere Bianchi.
La proposta di aumento di capitale da 1.200 milioni.
Le dimissioni del DG Dalu.
L’adozione del sistema incentivante in sostituzione di quello premiante.
La nomina del nuovo DG Chiesa.
In particolare, ho chiesto la personale garanzia dal Presidente sul fatto che la nomina del Vice Direttore a Direttore, motivata a suo dire dalla constatata impraticabilità di altre soluzioni, rappresentasse nei fatti discontinuità e non continuità con il passato.
Sulla vicenda dell’aumento delle deleghe a 5, il CdA ha deliberato di portare la proposta alla prossima assemblea straordinaria. Alla prima occasione e comunque prima dell’assemblea, dirò in consiglio che l’eventuale bocciatura dovrebbe essere interpretata come sfiducia, che ciò dovrebbe comportare le dimissioni dell’intero consiglio, comunque le mie, e che ciò debba essere reso noto ai soci, perché possano valutarne le conseguenze prima di assumere deliberazioni.
A questo fine avrebbe qualche significato richiamare all’ordine le rappresentanze sindacali perché usino solo i locali loro assegnati, non frequentino gli uffici dei consiglieri, se non quando da essi ufficialmente convocati, ed evitino di stazionare nelle adiacenze della sala consiglio, specie quando sono in corso riunioni. La mia reiterata richiesta di dare mandato seduta stante al DG, come risposta simbolica al rilievo n. 3, non è stata per ora accolta. La ripresenterò.
Il problema della fuga di notizie (richiamato nelle ultime righe del rilievo n. 1), dipende anche dalla mancanza di una comunicazione chiara da parte della Banca stessa che anticipi le richieste di autorità e investitori. Come le recenti vicende hanno esemplarmente dimostrato. Richiamerò il consiglio alla trasparenza.
L’organo di trasmissione del potere dalle rappresentanze dei soci dipendenti è la direzione del personale. Presenterò richiesta per sapere in che modo la discontinuità richiesta al nuovo DG si traduca in discontinuità di quella direzione, quanto a uomini, struttura organizzativa, deleghe.
La modifica statutaria che imponga che il CdA sia costituito in maggioranza da consiglieri indipendenti, selezionati dalle più reputate società specializzate, servirebbe a maggiormente distanziare i consiglieri, di maggioranza come di minoranza, dalle organizzazioni sindacali. Intendo proporla al Consiglio.
L’aumento di capitale, per cui il numero delle azioni potrebbe risultare quadruplicato, pone, oltre che aspetti tecnici ed economici, anche temi di governance. Ripresenterò la richiesta, già avanzata nel consiglio del 7/6/2011, di una riunione speciale dedicata al tema.
Milano, 13 giugno 2011
INTERVENTO DEL CONSIGLIERE DEBENEDETTI SULLA BOZZA «DEDUZIONI ALLE CONSTATAZIONI DELLA BANCA D’ITALIA» CONSEGNATO NELLA PRECEDENTE RIUNIONE DEL CDA
Non apporrò la mia firma nello spazio indicato in calce al documento. Non ne condivido l’impostazione, basata sul denial, arroccata in difesa dell’operato di amministratori e direttori, dove l’obbiettivo tattico di difendersi dagli addebiti prevale su quello strategico di eliminarne le cause.
Ciò emerge in primo luogo dalle risposte ai rilievi sui «profili gestionali», cioè quelli che toccano l’assetto di governo. Questo è il problema strutturale di tutte le banche popolari oltre una certa dimensione; in quelle quotate, il voto capitario crea problemi di agenzia irrisolubili. Ma solo in BPM c’è una governance di fatto, per cui le rappresentanze dei soci dipendenti nominano un CdA che proponga e approvi nomine, organigrammi e strategie rispondenti ai loro interessi. Il CdA finisce così per avere il ruolo di ratificatore passivo anziché quello di controllore informato e di propositore attivo. A sproposito vengono invocati i meriti del sistema cooperativo: quello vigente in BPM ne è la versione degenerata.
La bozza si preoccupa invece di dimostrare le «important iniziative al riguardo» già assunte, arrivando perfino a dire (p. 2) che lo statuto della BPM la pone «all’avanguardia rispetto alle regole di governance non solo delle altre popolari, ma addirittura dalle altre società quotate». Poiché i «profili di conformità» sono conseguenza dei «profili gestionali», la bozza cade in contraddizione: il mancato riconoscimento della necessità di intervenire su questi indebolisce la difesa tecnica di quelli, e i fatti contestati, anziché episodi su cui argomentare e discutere, si confermano sintomi a rischio di riproduzione.
Ci sono poi constatazioni sulle quali il consiglio ha non solo la facoltà di esprimere opinioni ma, ora che ne è informato, la responsabilità di assumere deliberazioni. Mi riferisco, particola-mente ma non esaustivamente, alla appostazione in bilancio delle posizioni di rischio, di cui alla constatazione n 7. In questo intervento non entro nel merito, certo che saranno fatti oggetto di specifica trattazione e votazione.
Discontinuità con il passato: questo è il significato dei fatti recentemente accaduti e delle decisioni ultimamente prese. Col deniol se ne smarrisce il senso e se ne vanifica la portata. Mi riferisco a:
La bocciatura in CdA della proposta di aumento di capitale da 600/800 milioni di euro.
Le dimissioni del consigliere Bianchi.
La proposta di aumento di capitale da 1.200 milioni di euro.
Le dimissioni del DG Dalu.
L’adozione del sistema incentivante in sostituzione di quello premiante.
La nomina del nuovo DG Chiesa.
Discontinuità è la esplicita motivazione per cui è stato introdotto il sistema incentivante, di cui avevo caldeggiato l’adozione quando facevo parte del comitato remunerazioni, prima che, visti i reiterati rifiuti, chiedessi di essere sostituito. Discontinuità deve essere il segno dell’azione del nuovo direttore generale: l’ho votato solo dopo aver richiesto e ottenuto assicurazioni dal Presidente.
La soluzione radicale del problema della governance è irta di difficoltà anche giuridiche. Ma qualcosa si può fare. Ecco alcune iniziative che propongo al consiglio. Alcune potrebbero essere assunte seduta stante, altre richiedono più precise formulazioni e approfondite discussioni.
Aumento delle deleghe a 5: non dovrebbe neppure più essere citato tra le cose ancora da fare, se il collega Benvenuto non segnalasse di incontrare incomprensibili resistenze nel comitato soci.
L’organo di trasmissione del potere dalle rappresentanze dei soci dipendenti è la direzione del personale. La discontinuità richiesta al nuovo DG deve tradursi in discontinuità di quella direzione, negli uomini, nella struttura organizzativa, nel sistema di deleghe.
Ristabilimento anche formale della distinzione dei ruoli: le rappresentanze sindacali vanno richiamate perché usino solo i locali loro assegnati, non frequentino gli uffici dei consiglieri, se non quando da essi ufficialmente convocati, ed evitino di stazionare nelle adiacenze della sala consiglio, specie quando sono in corso riunioni.
Modifica statutaria che imponga che il CdA sia costituito in maggioranza da consiglieri indipendenti, selezionati dalle più reputate società specializzate.
Il punto ultimo è quanto possiamo fare per segnalare, al mercato e all’Organo di Vigilanza, che questo consiglio è cosciente delle implicazioni di un aumento di capitale di queste dimensioni, in questo mercato, per questa Banca. Quando il numero delle azioni si moltiplica per 3 lo squilibrio tra diritti di voto e diritti di proprietà diventa macroscopico. Nell’ultimo Consiglio ho chiesto una riunione speciale dedicata al tema: oltre agli aspetti tecnici ed economici, ci sono problemi di governance su cui discutere ed eventualmente prendere iniziative. Prima che siano i fatti a prenderle per noi.
Milano, 6 giugno 2011
maggio 15, 2015