L’economista Richard Freeman avrebbe sostenuto in un convegno che le statistiche sulla bassa disoccupazione americana sono false, perché non considerano il milione di carcerati e gli otto milioni in libertà vigilata, il dieci per cento della forza lavoro maschile; includendoli, il tasso di disoccupazione americano sarebbe vicino al 12% dell’Unione Europea.
La sorprendente affermazione ( tutti e disoccupati e fuori dalle statistiche i maschi in libertà vigilata?) viene ripresa dal caporedattore dell’Herald Tribune, signor Joseph Flitchett. Flitchett viene a suo volta ripreso da Marcello da De Cecco, (“Lavoro, il trucco americano”, Repubblica del 7 Luglio) che ne trae occasione per una critica della società americana basata su tasso di criminalità, metodi di selezione del personale, sistema scolastico (condita da apprezzamenti stranamente rancorosi verso i suoi colleghi economisti, i “grandi uomini d’affari” europei, la “pletora degli intellettuali”).
Alla sequenza Freeman-Fletchett-De Cecco si aggiunge Furio Colombo ( “Il mito infranto della flessibilità”, sempre su Repubblica, il 18 Luglio) che ne trae una personale rappresentazione, letterariamente assai efficace, degli Usa nel decennio tra il 1980 e il boom attuale: descritti come una “durissima terra di nessuno”, che ha prodotto licenziamenti in massa, rivolte razziali, crescita della criminalità, e di cui sarebbe simbolo il folle autore della strage di Oklahoma City. Ragion per cui, secondo Colombo, chi chiede flessibilità non sarebbe che “una voce modesta” che indica “un modello che non esiste”.
Contemporaneamente uno studio di Daveri e Tabellini, calcolando la disoccupazione in modo inequivocabile – sulla base della popolazione tra i 15 e i 65 anni, compresi cioè i carcerati; prendendo i dati medi su cinque anni, cioè indipendentemente dal ciclo economico; considerando la sola popolazione maschile, per depurare da mutamenti nei comportamenti sociali – trova che la quota dei senza lavoro in USA e’ rimasta stabile dal 1965 ad oggi al 21%, mentre in Europa si e’ raddoppiata, passando dal 14 al 31%. Lo studio individua la causa nel livello eccessivo del costo del lavoro, dovuto all’aumento della tassazione sul lavoro unita al potere monopolistico dei sindacati, che ha scaricato tale onere sulle imprese.
Sempre il 20 Luglio Domenico Siniscalco (” Chi ha meno vincoli e’ primo in crescita” Il Sole 24 Ore ) illustra i risultati di uno studio degli economisti olandesi Koedijk e Kremers pubblicato da Economic Policy. Che a loro volta danno evidenza quantitativa alla relazione inversa esistente tra vincoli e regolamentazioni dei mercati da un lato, e crescita economica dall’altro. Italia e Grecia sono particolarmente penalizzate da alti vincoli nel mercato del lavoro e alta regolamentazione dei prodotti.
Il duello a distanza potrebbe continuare, magari condito di allusioni coperte, rimandi comprensibili a pochi. Ne’ mancherebbero gli spunti. A partire dall’articolo di De Cecco, cui e’ toccato in sorte di essere inserito in pagina sotto un titolo di testa “L’esercito a Napoli…per fermare il Far West”: a Napoli, non a Detroit. Mentre il titolo a fianco,”Albanesi, premio a chi rimpatria” potrebbe anch’esso suggerire qualche sfavorevole confronto tra il nostro paese, in crisi per poche migliaia di profughi, e gli USA in cui entra ogni anno un milione di immigranti. Si potrebbe, se l’argomento – la disoccupazione – non fosse così drammatico, se le decisioni – la riforma del sistema del lavoro e del welfare – non fossero di così capitale importanza.
Conviene allora evitare una facile ma inopportuna polemica e tentare invece un confronto serio, incardinato su poche e chiare questioni di fondo.
1. Ritiene Marcello De Cecco che ricerche come quelle di Daveri-Tabellini e di Koedijk-Kremers ( per citare solo le più recenti), siano contributi seri oppure no? Furio Colombo quando parla di ” numerini stampati in piccolo dai vari ” si riferisce ai dati OCSE sull’occupazione, nonché al connesso invito ad accrescere la flessibilità del mercato del lavoro? anch’essi un pezzo di letteratura? L’essenziale e’ che il confronto avvenga sulla base di posizioni non ideologiche, rispettabili, ma pur sempre ideologiche; bensì a partire da ipotesi esplicite e deduzioni conseguenti.
2. I molteplici, e contrastanti aspetti della società americana interessano chi la lascia e chi la cerca – tra essi anche tanti “cervelli” italiani: la sezione “apocalittici” della narrativa sulla società americana contiene anche capolavori. Ma parliamo di Europa, parliamo di Italia: vanno bene come sono? Il sistema dei rapporti giuridici che regola il mondo del lavoro ed il sistema delle protezioni sociali vigente nell’Europa continentale in genere, e la sua specifica versione italiana, sono ritenuti tali da dover essere mantenuti come sono, o devono essere sottoposti ad aggiornamento?
3. Gli scienziati sociali sanno bene che i sistemi sociali esibiscono continuità secolari, che le culture evolvono lentamente, che il corpus gigantesco di leggi e di giurisprudenza su cui si basano rende impossibili mutamenti radicali. A due secoli di distanza, la divaricazione tra illuminismo francese ed inglese produce ancora differenze che nessun “pensiero unico” vale a colmare. Ma venendo a noi: chi sarebbero i feroci reaganiani che- secono le accuse di De Cecco e di Colombo – si propongono di abbattere quello che secondo loro sarebbe la realizzazione più avanzata della civiltà? I Monti, gli Amato, i Giugni, i Ranieri, i Salvati, gli Ichino, piu’ modestamente il sottoscritto?
Una risposta a questi tre quesiti, meglio di cento polemiche sui guasti sociali del modello anglosassone, può contribuire a fare chiarezza innanzitutto su un punto. Se cioè la diversità di toni che si coglie nei due interlocutori rispetto agli ultimi citati, quando il discorso si volge all’opportunità’ – alla necessità – di scrostare le rigidità italiane ed europee, testimoni solo diverse sensibilità o se, invece, l’appartenenza ad una comune matrice riformista celi al suo interno ormai approcci concretamente tanto divergenti da giustificare scomuniche. Scomuniche – a dire il vero- i “flessibilisti” non emettono. E, sicuramente, neppure ritengono di meritare.
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luglio 25, 1997