Stretta dalla necessità di abbattere i costi, l’industria europea dell’auto ha effettuato, tra il 1991 e il 1993, una massiccia ristrutturazione: tra produttori e fornitori si sono tagliati 500.000 posti di lavoro. La storia di decenni di lotte su cui si è formata l’élite della classe operaia, che furono il banco di prova della grande imprendi-tona di fronte ai problemi sociali della produzione di serie, ha conosciuto tensioni laceranti, proposte rivoluzionarie: come quella Vw di ridurre orario di lavoro e busta paga. Marche simbolo dell’orgoglio di una nazione, come Mercedes, hanno dovuto cambiare filosofia di progetto: non più la migliore tecnologia possibile, e il prezzo che ne consegue, ma un progetto compatibile con l’obiettivo di prezzo.
Anche nei rapporti con i Paesi dell’Est l’auto sta avendo un ruolo pionieristico: per la produzione di una nuova testata motore la Opel ha chiesto due «offerte» una al suo stabilimento di Bochum in Germania, l’altra a una fabbrica ungherese, dove i salari sono il 13% di quelli tedeschi (e ha vinto Bochum grazie alla migliore produttività). Contemporaneamente il prodotto è diventato enormemente più sofisticato, vario, ricco di accessori, sicuro: basta mettersi al volante di una Punto per rendersene conto. Eppure ancora oggi la produttività media delle fabbriche europee (comprese però anche Ferrari e Porsche) è un terzo di quella giapponese, solo mi paio di fabbriche, tra cui Melfi, sono ai vertici mondiali di produttività. E non è finito: nel 1999 saranno eliminate le ultime restrizioni alle importazioni di vetture giapponesi, e l’industria europea dovrà fare un ulteriore sforzo che si stima costerà un’ulteriore riduzione di 500.00 posti di lavoro. A prezzo di investimenti in capitale finanziario, e di sacrifici in capitale umano, si è realizzato un incredibile aumento di produttività e di valore del prodotto: grazie alla concorrenza. E’ questa che ha promosso un gigantesco sforzo che ha coinvolto/sconvolto tecnologie, tecniche di produzione, sistemi organizzativi, qualità. E analogo discorso si potrebbe fare per altre industrie: se si prende il caso dell’auto è solo perché questa non può neppure contare su grossi aumenti di volume, né sui continui incrementi prestazionali della microelettronica.
Di quanto sono variati nel frattempo gli addetti alla pubblica amministrazione? Quanto costa oggi rispetto a cinque anni fa una patente, un certificato anagrafico, un letto in ospedale, il trattamento di un modulo 740, una raccomandata? Anche se la finanziaria prevede il blocco del turn-over e modifiche dell’orario per venire incontro alle esigenze del pubblico, la distanza per raggiungere servizi realmente efficienti sembra ancora enorme. Se la produttività della PA. non è aumentata tanto quanto quello dei lavoratori dell’industria, siccome questi diminuiscono di numero, ciascuno di loro dovrà portare sulle spalle (e nella busta paga) un fardello sempre maggiore. Il rischio di cadere nella demagogia è grande: amplissimi settori della spesa pubblica sono sottratti per loro natura al vincolo della produttività (come le pensioni); in altri prevalgono aspetti qualitativi e relazionali (la scuola, ma lì già qualche osservazione la si potrebbe fare). Ma si stenta ad immaginare, tra i dipendenti pubblici, l’analogo delle decine di migliaia di persone che per anni non hanno pensato ad altro che a come eliminare una vite, un passaggio di lavorazione, una fonte di difetti. La tesi è proprio l’opposto di quella demagogica. Non solo non si vuole mettere da una parte i «buoni» lavoratori dell’industria e dall’altra i «cattivi» dipendenti pubblici: al contrario si sostiene che è vano, e quindi in fondo ingiusto, pretendere incrementi di produttività dai dipendenti pubblici finché non li si sia esposti a forze che li spingono a produrli. Se il settore pubblico per sua natura è sottratto alla concorrenza, come utilizzare questa che è l’unica forza che conosciamo per aumentare la produttività, ed evitare di dover invocare solo le categorie morali di buona volontà o di dedizione? Come prevenire il risentimento tra diversi gruppi di cittadini?
Il primo suggerimento è quello di istituire e rendere pubblici , dei confronti: è probabile che i costi (comprendendovi anche il livello di servizio) non siano dappertutto uguali. Anche la pubblica amministrazione è una specie di monopolio naturale: non si può spostare la propria residenza per avere la patente più in fretta. Ma almeno si sappiano i differenziali di efficienza. (Una cosa analoga succede per l’energia elettrica: la sola distribuzione costa ca. 32 L/kh a Milano e più di 80 a Napoli). Abbiamo un difensore civico: sembra più utile un’autorità indipendente dalla PA, che elabori e renda pubblici dati di confronto significativi, «toccabili con marco» da tutti.
La seconda proposta rimanda all’opportunità che la P.A. anziché erogare servizi si limiti ad acquistarli e fornirli. Se nei pubblici uffici è impossibile istituire concorrenza, la si istituisca tra fornitori di servizi all’amministrazione stessa. Cosa non semplice: neppure comprare bene al mercato semplice. La nostra PA non sa comprare servizi complessi, perché non è abituata a ragionare in termini di risultati, ma di gestione del personale, di gradi, di mansionari. Qualcosa si è mosso, parecchio è stato fatto dal ministro Cassese: ma scoraggia il ritmo del cambiamento rispetto alla vastità del compito. In attesa di una riforma globale non possiamo sperare (o temere) che vengano i giapponesi ad elaborare i nostri 740: per questo, i funzionari pubblici possono stare tranquilli. Ma non sarà indifferente neppure per loro se i certificati di immatricolazione li dovessero rilasciare prevalentemente a vetture fatte in Giappone.
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ottobre 10, 1994