Lo scontro in atto sulla questione elettrica ripropone un problema fondamentale nei rapporti tra autorità di regolazione, potere politico ed imprese.
Per recepire le pur modeste liberalizzazioni del mercato dell’energia richieste da Bruxelles, l’Autorità per l’energia ha fatto le sue proposte, l’Antitrust ha bocciato lo schema del Governo, il sindacato ha bocciato entrambe: ci si potevano attendere svolgimenti più costruttivi, ma siamo ancora nella fisiologia.
Quando invece il Presidente di una commissione parlamentare, parlando in una seduta con pubblicità dei lavori, esplicitamente accusa l’Autorità per l’energia elettrica – come ha fatto mercoledì il sen. Caponi – di avere travalicato i propri poteri, nel merito e nel metodo, allora siamo in presenza di un salto di livello: non è più confronto tra opinioni, è scontro tra poteri, è conflitto tra le istituzioni sulle competenze.
Le autorità di settore per legge devono essere istituite prima di privatizzare. Per questo Filippo Cavazzuti presentò nel 1993 una proposta di legge quadro, poi da me accompagnata in un tribolatissimo iter parlamentare, emendata e difesa, sotto i due governi Berlusconi e Dini.
Eravamo coscienti che in teoria le autorità indipendenti sono soggetti anomali, per il nostro ordinamento amministrativo. Ma eravamo convinti che fossero necessari strumenti “terzi” rispetto a questa amministrazione. Come assicurare l’indipendenza?
Rifiutammo di affermarla in astratto, scegliemmo di ancorarla a procedure operative: i criteri di selezione e di incompatibilità per i suoi membri, i contraddittori tra le parti e la pubblicità degli atti.
L’indipendenza e l’autonomia che volevamo assicurare era sia dai ministeri sia dalle aziende; il cordone ombelicale che volevamo rescindere era quello tra monopolio e ministero. Sono solo passati tre anni e già, alla prima prova impegnativa, lo si vorrebbe dimenticare. Ma se si fosse voluto avere un silenzioso consulente del ministero, c’era bisogno di una legge, di decine di sedute, di centinaia di emendamenti, di quattro passaggi parlamentari?
Il dettato della legge è chiaro: sua finalità è “la promozione delle concorrenza nel settore dei servizi di pubblica utilità”. Le Autorità “in piena autonomia e indipendenza di giudizio…svolgono attività consultiva e di segnalazione al Governo…anche ai fini del recepimento della normativa comunitaria…formulano osservazioni e proposte da trasmettere al Governo e al Parlamento”. E’ esattamente ciò che ha fatto l’Autorità: i rilievi sul merito sono manifestamente infondati.
E’ l’altra accusa, quella di aver reso pubbliche e dato pubblicità alle proprie “osservazioni e proposte” quella che desta le considerazioni politicamente più rilevanti. Tutte le autorità “terze” – di settore, Antitrust, Consob, banche centrali – fondano la propria autonomia e indipendenza sulla trasparenza: rendere espliciti gli obbiettivi, note le procedure, conosciute le deliberazioni.
Le amministrazioni che operano in contesti definiti sono rette da norme generali che stanno per così dire al loro esterno: le autorità indipendenti che devono operare in situazioni non note a priori, devono darsi le proprie regole. Parlare al pubblico è la garanzia della loro indipendenza, farlo solo attraverso atti pubblici è la norma della loro correttezza.
A sproposito si invoca il primato della politica: ma è proprio la presenza di voci competenti ed indipendenti quella che consente al parlamento di darsi prospettive meno unilaterali, un minimo margine di autonomia rispetto al potere dell’Esecutivo.
Il primato della politica non è in alcun modo in discussione, né potrebbe esserlo stante la disparità degli strumenti a disposizione: il governo ha la macchina amministrativa (e sovente il potere di nomina), il parlamento ha le leggi, il sindacato ha lo sciopero: le autorità hanno “osservazioni e pareri”. E francamente grottesco sarebbe dare alla parola “primato” un significato per così dire temporale, nel senso che il governo deve parlare prima e l’autorità dopo.
Ci si è diffusi sul caso dell’energia elettrica perché è quello alla nostra attenzione in questi giorni. Ma il problema è molto più ampio, riguarda i rapporti tra politica ed autorità indipendenti. Quando il conflitto emerge in modo preciso, come ha candidamente fatto il Presidente della Commissione Industria del Senato, la risposta è facile: l’autorità era nel legittimo uso dei suoi poteri. Più difficile é contrastare l’insofferenza che le forze politiche e sindacali manifestano verso la terzietà delle autorità, quando i risultati della loro terzietà non piacciono.
E’ paradossale: si creano sempre nuove autorità, ancora questa settimana quella sulle ONLUS: e poi si disattendono i loro pareri, come sovente fa il parlamento con l’Antitrust; si riducono i loro poteri, come ha fatto il Senato con la Consob; a scanso di rischi se ne contorna il presidente con un parlamentino, come per le comunicazioni; si ha verso di loro un atteggiamento di rifiuto e di insofferenza, come chiunque può testimoniare.
O forse non è un paradosso: si fanno le autorità per dimostrare che ci si spoglia di poteri, per assicurare che i diritti di terzi sono garantiti dalle interferenze della politica: per mettersi il vestito della festa. Ma è un vestito di Arlecchino se poi nella pratica il potere politico nega le norme che faticosamente si sono scritte, mina la legittimità delle persone che onestamente cercano di applicarle.
Se, per dirla fino in fondo, esercita riservatamente la propria influenza sui componenti delle autorità per indirizzarne a monte le decisioni: come, stando ai bene informati, pure avviene. In tal caso, il vestito di Arlecchino sarebbe stato meglio non farlo.
novembre 8, 1998