di Claudio Velardi
Dalla sconfitta annunciata di Berlusconi alla sua quasi-vittoria. Dai 4 milioni e mezzo di elettori delle primarie ai 25mila voti che consentono a Prodi di governare tra condizionamenti estremisti, riforme annunciate e rimangiate, un voto di fiducia dopo l’altro. Sullo sfondo la solita operetta italiana, con le retoriche speculari del “ce la faremo” e del “non c’è niente da fare”, l’abisso del debito pubblico e il trionfo dei compromessi, spie che ci tramano contro, giudici che danno spettacolo, intercettazioni da pochade, affari e manette: regolari tragedie che finiscono in farsa. Mentre i politici parteggiano e dividono invece di unire e governare.
E dire che il 2006 doveva cambiare l’Italia: l’anno uno della Nuova Era dell’Unione di Prodi, dopo il Grande Fallimento berlusconiano. Una lunga corsa, suggellata da schiaccianti vittorie in tutte le elezioni intermedie e conclusa con le trionfali regionali della primavera 2005.
Le politiche dell’aprile 2006? Una pura formalità, organigrammi già pronti, bisognava solo iniziare a lavorare. Invece ci si mette di mezzo il Grande Comunicatore, il Cavaliere mai domo, che comincia nell’autunno 2005 la sua inaspettata rincorsa, nell’incredulità generale, sorretto solo dall’incrollabile fede in se stesso.Cambia la legge elettorale, approva la devolution, si scatena in tutte le tv. E, mese dopo mese, recupera il terreno perduto.
Come in un film, vediamo scorrere la sua rimonta e il parallelo affanno di Prodi in una campagna elettorale improbabile e lunghissima, fatta di sondaggi inattendibili, manifesti che insozzano le città, duelli televisivi ingessati e strampalate strategie comunicative. Gli italiani assistono, sornioni, allo spettacolo. Poi, al momento di decidere, il 9 e 10 aprile, con un voto inatteso e beffardo, consegnano al futuro un paese ingovernabile e incomprensibile. Che ama Berlusconi e manda al governo Pecoraro Scanio e Di Pietro, festeggia gli azzurri campioni del mondo e difende gli indagati di Calciopoli, sostiene le liberalizzazioni per gli altri e le corporazioni per sé. L’anno che doveva cambiare l’Italia è descritto da un uomo di sinistra che da anni si occupa di comunicazione e politica. Un diario appassionato e ironico che si conclude con due outing: l’autore confessa di aver capito molto poco del circo politico-mediatico in cui vive, e di non farcela più, da uomo di sinistra, a sostenere, dopo decenni di militanza, buone cause giocate sempre nella maniera peggiore.
ottobre 2, 2006