L’approvazione del decreto Ronchi, battezzato come “privatizzazione dell’acqua”, ha suscitato una reazione negativa singolare per compattezza delle voci e per asprezza dei commenti: l’articolo di Paolo Rumiz (La Battaglia dell’acqua, la Repubblica 18 Novembre) ne è esempio emblematico. La reazione potrebbe essere dovuta a un riflusso negativo verso le privatizzazioni dei Governi Amato e Prodi, perché il tempo sbiadisce il ricordo di quanta fosse l’invadenza dello stato nell’economia, mentre la cronaca offre fresche ragioni per lamentarsi di disservizi.
Potrebbe essere per la paura sopravvenuta con la grande crisi, che induce a guardare con diffidenza al mercato. In realtà le reazioni di oggi sono le stesse che hanno impedito il cammino della riforma fin dal primo Governo Prodi, nel ’96. Ora la legge è stata approvata, ma dovrà essere applicata dai comuni e accettata dai cittadini: vale quindi la pena interrogarsi sul perché di questa alzata di scudi, cercare di capire le ragioni e smontare i pregiudizi.
Le reazioni, se non sono dovute a fatti contingenti, devono dipendere da qualcosa di specifico che ha a che fare con l’acqua in quanto tale. Si dice che è un bene pubblico, ma in che senso? Lo è certamente all’origine, essendo di proprietà demaniale. Ma poi diventa privata quando lo stato la vende per usi domestici o industriali, la dà in concessione per usi agricoli o per produzione di energia elettrica; o per essere rivenduta come acqua minerale, di cui siamo grandi consumatori. In senso tecnico l’acqua non appartiene alla categoria dei beni pubblici: questi infatti sono caratterizzati dal non avere né “rivalità nel consumo” – se un altro ascolta musica di Bach non mi impedisce di ascoltarla – né “escludibilità dal consumo” – l’illuminazione stradale viene usata da chiunque passi. In quei casi, tutti hanno interesse a fruire del bene e nessuno a fornirlo: che per questo si chiama pubblico, perché può esistere solo se è fornito dal pubblico. Non è il caso dell’acqua: nel mondo ce n’è penuria; e basta chiudere un rubinetto o abbassare una paratia per escludere dal consumo una casa o un campo. Dicendo che l’acqua è un “bene comune” e che il diritto all’acqua è un’estensione del diritto alla vita, si esprime una tensione ideale: ma la realtà è quella delle battaglie combattute nei secoli per averne il possesso e della noncuranza con cui, una volta avutolo, la si spreca: in Italia più del 30%. “Chi governa l’acqua comanda” scrive Rumiz: comandare è decidere chi e a che condizioni ne può fruire.
Perché va bene se l’acqua la vende il pubblico, non va bene se devo comprarla da un privato ? Le infrastrutture interessate dal ciclo dell’acqua sono un monopolio naturale, non si possono duplicare, e non basta che il mercato ci sia solo al momento della gara, ci vuole un regolatore. Che il regolatore venga “catturato” è un rischio reale, qui poi la legge neppure lo prevede, saranno i comuni stessi a imporre il rispetto del contratto a chi avrà vinto la gara. Ma che logica c’è nel non aver fiducia nel pubblico quando controlla e averla quando gestisce? Di più, averla quando gestisce e controlla insieme?
Avanzo una spiegazione: alla radice della protesta non c’è il fatto che il prezzo possa essere gonfiato, ma il fatto che ci sia un prezzo; non c’è l’entità del profitto, ma la misurazione del costo, il dover accettare che anche per l’acqua si debba pagare un prezzo che copra le spese di esercizio, gli investimenti, e il costo del capitale. Non è per “protestare dei disservizi” che si vuole avere come controparte un sindaco e non i privati (forse che nella sanità si è contenti di poter protestare con il presidente della Regione?), ma per chiedere al sindaco di non presentare il conto. Non è per evitare che “l’acqua passi al mercato finanziario”: sempre di lì si passa, sia che i capitali necessari vengano reperiti dal comune emettendo obbligazioni, o dallo stato emettendo BOT o dalle imprese collocando azioni. E’ perché il pubblico ha interesse a mantenere il prezzo basso e a non fare – per dirla in modo elegante – efficienza su chi assumere e che cosa comperare: può non fare gli investimenti e, se non basta, indebitarsi. E se questo vuol dire avere questa rete colabrodo, scaricando sulle future generazioni di riparare i tubi e ripianare i debiti, però possiamo dire soddisfatti di avere esercitato il “controllo delle risorse dal basso”.
“Oggi potremmo dover rinunciare a un pezzo della nostra sovranità” scrive Rumiz. Sta qui l’origine di rifiuti e paure. Ma non è vero che noi partecipiamo della sovranità che deleghiamo al pubblico con questo tipo di rapporto fiduciario: al contrario noi perdiamo parte della nostra sovranità, di produttori e di consumatori, quella che esercitiamo tutti i giorni con le nostre iniziative e le nostre attività. Le svolgiamo sui mercati, e realizzare condizioni per il loro buon funzionamento, è ciò che dobbiamo esigere dal pubblico. Nel caso dei servizi pubblici non è facile e non è affatto scontato. Ma non si fanno passi avanti se si guarda indietro, al piccolo mondo antico: c’è da dubitare che sia mai esistito, è certo che non si merita rimpianti.
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novembre 22, 2009