La verità storica stabilita per legge errore di una cultura poco liberale

ottobre 20, 2013


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di Giovanni Belardinelli

Colpisce e preoccupa l’assenza di opinioni critiche riguardo al disegno di legge che intende punire con la reclusione fino a tre anni chi si renda colpevole del reato di negazionismo. La legge, che ha sostanzialmente l’appoggio di tutte le forze politiche, non è stata ancora approvata dal Senato solo per una questione procedurale (la richiesta del M5S che a votarla sia l’Aula tutta e non soltanto la commissione giustizia in sede deliberante). Ma con pochissime eccezioni (il radicale Marco Pannella, la giornalista Fiamma Nirenstein) nessuno sembra attraversato da dubbi circa il suo carattere illiberale, che pure dovrebbe essere evidente dato che la nuova norma sanzionerebbe pur sempre delle opinioni. La storica debolezza della cultura liberale nel nostro Paese è testimoniata appunto dal fatto che tendiamo a ignorare come la libertà di opinione si misuri in primo luogo in relazione alle opinioni che non condividiamo e che troviamo anzi aberranti.

Una legge del genere si inserisce in una tendenza, comune ormai a vari Paesi, a definire in via ufficiale cosa sia lecito e cosa sia proibito sostenere rispetto al passato, stabilendo di fatto delle verità storiche di Stato. È una tendenza forte soprattutto in Francia, dove esistono ormai varie lois mémorielles , come vengono chiamate; leggi che sono tutte da respingere in linea di principio, cioè indipendentemente da ciò che prescrivono o vietano, come sostennero qualche anno fa alcuni dei massimi storici francesi in un documento-appello intitolato «Libertà per la storia». È egualmente inaccettabile, dunque, sia la legge francese che punisce chi nega il genocidio degli armeni, sia la legge turca che, al contrario, vieta anche solo di nominare quel genocidio. Leggi del genere consegnano ai tribunali il diritto di avere l’ultima parola per stabilire se effettivamente una certa affermazione debba essere considerata «negazionista». Per di più, nel caso del disegno di legge in discussione al Senato, la nuova fattispecie di reato riguarda non solo la negazione dei crimini di genocidio e contro l’umanità, ma anche la loro «minimizzazione»: un concetto, evidentemente, non solo vago ma che implica l’esistenza di una versione ufficiale (stabilità da chi?) alla quale occorra attenersi.
Peraltro, una legge come quella contro il negazionismo non rappresenta nemmeno un modo sbagliato per raggiungere un obiettivo giusto (l’adeguata consapevolezza e conoscenza di ciò che sono stati alcuni tragici eventi storici, a cominciare dalla Shoah). La punizione per legge delle sue opinioni consente infatti al negazionista di ergersi a difensore della libertà di espressione, rischia di circondare le sue affermazioni di un alone di mistero. E questo potrebbe esercitare qualche attrazione su quella parte di opinione pubblica affascinata dal complottismo e dalle «verità segrete» che qualcuno — secondo una tipica affermazione dei negazionisti — vorrebbe tenere nascoste ricorrendo alla minaccia del carcere.
Ma se le cose stanno così, se sono tanti gli aspetti censurabili di una legge come quella sul negazionismo, diventa allora sorprendente la quasi completa assenza di discussione che la ha accompagnata. Segno di una pochezza culturale, di un radicato conformismo dell’intero nostro ceto politico, immemore evidentemente delle critiche che invece accompagnarono pochi anni fa, nel 2007, un analogo disegno di legge presentato dall’allora guardasigilli Mastella determinandone di fatto l’affossamento. L’Unità ospitò a quell’epoca un durissimo documento firmato da vari storici italiani, un intellettuale influente come Stefano Rodotà scrisse un articolo contro il progetto Mastella che diceva tutto già nel titolo: Libertà di parola. E tanti altri esempi si potrebbero fare. Oggi, invece, nulla di tutto questo ma solo silenzio.

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