Un qualunque ragionamento sui media finisce, quando non incomincia, con un richiamo, solenne o appassionato, all’obbiettività nel dare le notizie. Discorso antico: Umberto Eco, parlando martedì sera, ospite della Presidenza del Senato, su “Stampa e mondo politico oggi” ricordava come il tema fosse stato oggetto di un convegno ancora negli anni 60: l’unica notizia obbiettiva, si diceva già allora, sarebbe il bollettino meteorologico; la selezione stessa delle notizie da dare, il giustapporlo nell’impaginazione determinano il modo con il quale la notizia viene percepita; all’estremo opposto la sovrabbondanza delle informazioni ne determina praticamente una casuale selezione. Si dimostra così come sia impossibile realizzare quell’imparzialità e obbiettività che pure costituisce, nella mente di tanti, il punto ideale cui dovrebbe tendere l’informazione.
E strano come permanga questo mito, che si ricollega alla ingenua credenza della verità come corrispondenza a una realtà esistente all’esterno della sua rappresentazione. I “fatti” non esistono: la capacità di creare la realtà non è solo del mondo dell’arte. Anche le statistiche, operando una selezione sui fatti, ne offrono un’interpretazione, fuori della quale essi sarebbero non conoscibili e comunque irrilevanti. Perfino nel mondo esatto della matematica la ricerca della “verità” risulta sfuggente: la recente dimostrazione dell’ultimo teorema di Fermat è contenuta in alcune centinaia di pagine di calcoli, accessibili con difficoltà a pochissimi specialisti: che cosa è il “fatto” che si vorrebbe verificabile nella sua esattezza, la dimostrazione o l’affermazione di averla trovata? È dei giorni scorsi l’analisi critica di un libro che ha avuto un notevole successo negli Usa, “Beli Curve”: gli autori, selezionando in modo parziale lavori scientifici, vogliono dimostrare l’inferiorità genetica della razza negra. Che cosa è Il “fatto”, la presunta differenza genetica, la sua dimostrazione, il successo che il libro ha avuto, o il disvelamento della sua non scientificità?
Conviene assumere un punto di vista diverso: la parola crea il mondo, l’unica realtà è quella che prende forma nel momento in cui viene raccontata: sono le agenzie, i giornali, la televisione, a crearla. Eco lamenta che i giornali si esercitino sempre di più nel commentare e quindi amplificare le notizie già date dalla televisione: ma se ammettiamo che i fatti sono quelli che prendono corpo nel momento in cui la televisione ce li propone, perché mai i giornali non dovrebbero parlare di questi fatti, e del modo in cui essi prendono vita? Ciò che i media fanno non è sempre e comunque una produzione di notizie a mezzo di notizie? Tre senatori leghisti si presentano incappucciati in Senato per ricordare l’appartenenza di Berlusconi alla loggia P2: ma quale è il “fatto”, il gesto dei parlamentari o la loro apparizione in televisione?
Comperando un giornale noi comperiamo la nostra “verità”, al suo interno troviamo il modo di rapportarci a essa, dalla sua coerenza interna traiamo i motivi per mantenere il nostro consenso; solo nella libertà di scelta sta la nostra possibilità di trovare, se Io vogliamo, un’altra “verità” più rispondente alla totalità delle altre esperienze che, insieme a quella che deriviamo dai giornali, quotidiana-mente viviamo,
Questi ragionamenti hanno qualche attinenza al problema che sembra oggi occupare il centro del dibattito politico, quello della cosiddetta par condicio. E non solo inutile, ma concettualmente errato, inseguire irraggiungibili equidistanze, pretendere impossibili obbiettività. La regolamentazione dei tempi a disposizione delle varie parti politiche corrisponde certo al requisito minimo di giustizia, ma i tempi televisivi non si misurano solo a quantità: sono ovviamente influenzati dalla collocazione nel corso della giornata; ma anche dal diacronico succedersi tra di loro e con altri programmi, dal loro preordinato scadenzarsi rispetto al casuale prodursi degli avvenimenti esterni: in alcuni casi, o per alcuni, può essere un vantaggio avere la prima parola, ,in altri l’ultima, È una strada senza sbocco, dato che solo in minima e imperfetta misura si può offrire alle varie “verità” spazi realmente equivalenti, E questo perché lo spettro delle frequenze disponibili per la trasmissione via etere è intrinsecamente limitato, a differenza dello spazio disponibile nelle edicole dei giornali.
La par condicio ci sarà solo il giorno in cui, aumentato a dismisura il numero dei canali disponibili, come a esempio con la televisione via cavo, il “mercato delle verità” non sarà più, come è oggi, un mercato dei venditori. ma un mercato dei compratori: in
altre parole quando l’operatore televisivo, diventato operatore cavo, sarà lui a doversi preoccupare di saturare l’immensa capacità di inviare segnali, e per questa ragione sarà lui a individuare e inseguire tutte le nicchie: di consumatori certo, ma anche cli cittadini alla ricerca della loro “verità”.
febbraio 3, 1995