Per non aprire la crisi, Bertinotti aveva anche avanzato la richiesta di rinviare sine die la privatizzazione di Eni; ancora per il 51% in mano pubblica, e di Enel, totalmente dello Stato. Nei commenti, questa richiesta passò in secondo piano rispetto a quella più “scandalosa” della riduzione di orario a parità di salario. Poi c’è stato il successo dell’offerta pubblica per Telecom, la maggiore in Europa fino a questo momento. Come dire che, quanto a privatizzazioni, ci si debba per il momento accontentare. Non è così: rinviare la vendita di Eni ed Enel sarebbe un fatto grave, per tre ordini di motivi che riguardano rispettivamente i consumatori, la nostra economia, il Governo stesso.
Il primo motivo ha a che fare con quanto scrive Paolo Glisenti sul Messaggero del 20 ottobre scorso: la giungla tariffaria, che egli così efficacemente descrive, è diretta conseguenza del monopolio pubblico. Ogni monopolio distorce il sistema dei prezzi; quando poi è pubblico, il monopolio offre un’irresistibile tentazione di usare le tariffe per fare favori: a gruppi di utenti privilegiati, ai dipendenti, ai sindacati, ai fornitori, perfino ai residui concorrenti. Alla fine le tariffe non hanno più alcuna relazione con i costi. E’ vero, c’è la nuova Autorità per l’energia elettrica, ci sarà quella per le comunicazioni, il loro primo compito è determinare le tariffe ed esigere aumenti di produttività per ridurle anno dopo anno. Ma che cosa può un’autorità di poche centinaia di persone contro aziende che ne impiegano decine di migliaia, che dispongono di tutte le informazioni sui costi e sui clienti, che sono così ricche e potenti? Se non si fanno crescere più concorrenti, e non si creano condizioni per cui combattano accanitamente tra loro, non si avranno massicce riduzioni tariffarie.
La seconda ragione la potremmo chiamare, se ci è consentita l’impertinenza, il “fattore Tatò”. Tatò è un ottimo manager, è “privato” fino al midollo, non obbedisce a partiti. Queste caratteristiche positive gli attirano molte critiche. Alcune sono riconducibili alla nostalgia dei partiti di tornare ad avere voce in capitolo nelle aziende pubbliche: e queste critiche tornano a suo onore. Altre riguardano alcune sue decisioni: e queste invece sono fondate, perché con le sue iniziative Tatò rende evidenti le contraddizioni del modello di gestione e di controllo delle aziende pubbliche di cui si è decisa la privatizzazione quando il termine della vendita viene rinviato a un imprecisato futuro e poi fatto cadere del tutto. Spieghiamoci. E’ in vista delle privatizzazioni che gli enti pubblici economici sono stati trasformati in società per azioni, che di conseguenza i loro capi sono diventati amministratori di società tenuti ad agire secondo il mandato dell’azionista. E’ in vista di una prossima privatizzazione che l’azionista Tesoro ha assegnato il mandato di massimizzare il valore dell’azienda. In vista di una prossima privatizzazione questo si giustifica: in vista, appunto. Ma quando per assecondare Rifondazione l’approdo scompare alla vista, la missione assegnata agli amministratori diviene occasione per scelte discutibili o inaccettabili. Valorizzare gli ossei è un mandato adeguato in un periodo transitorio e breve, diviene indeterminato in un orizzonte senza termine, poiché legittima ogni genere di strategia.- dalla diversificazione (nelle telecomunicazioni), alle alleanze con fornitori (quali l’Eni), a quelle con concorrenti (quale l’americana Enron). Forse porteranno profitti; certo renderanno più complessa la privatizzazione, dunque concorrono a rinviarla ulteriormente.
La responsabilità di questa distorsione non è di Tatò e di Testa, sta nelle sfere della politica. La responsabilità è di chi prima ha fissato un tempo per la privatizzazione, e poi ne ha spostato indefinitamente il termine. E questo ci porta alla terza delle ragioni che indicavamo all’inizio.
Se il rinvio alla privatizzazione fa sì che il management non sia più legato a un mandato limitato, e si senta così autorizzato ad iniziative che danno luogo a polemiche inevitabili e – come si è detto – fondate, chi è esposto in prima linea alle polemiche è il Tesoro. I segnali di questi giorni sono inequivocabili; c’è da giurare che siamo solo all’inizio delle critiche rivolte a chi, da azionista “tecnico” e temporaneo dì grandi enti da dismettere, si trasforma in “controllore silenzioso” di grandi aziende il cui ambito si espande. Polemiche alle quali sarebbe consigliabile sottrarre Ciampi.
Il problema dell’uscita dello Stato dalla proprietà di Eni ed Enel non può essere accantonato in nome della stabilità. Non sarà certo il caso di aprire contro Prodi offensive scomposte come quelle di Bertinotti sul fronte opposto. Fino a maggio – cioè all’esame finale della lira per la moneta unica – Prodi può contare sul silenzio degli innocenti: dopo no. Se per la privatizzazione di Enel ed Eni non si definirà un termine prossimo e certo, a maggio nessuno potrà escludere l’uscita dalla maggioranza di coloro che ai questo obbiettivo sono giustamente convinti.
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ottobre 25, 1997