L’avvocato, sogno e incubo per borghesi e proletari
Per mezzo secolo Giovanni Agnelli é stato il simbolo del capitalismo privato italiano. Enrico Cuccia ne é stato il difensore, molte volte il salvatore. Agnelli, all’estero e in Italia, ne era il portabandiera. Senza cedere alla suggestioni simboliche di un trapasso dalla vita alla vigilia di un trapasso di poteri, io preferisco ricordarlo per questo suo ruolo, per come l’ha interpretato e per come la sua persona ha contribuito a dare al nostro capitalismo privato la sua attuale forma e le sue caratteristiche.
Quella che per prima salta gli occhi é il carattere familiare della struttura proprietaria Fiat, la costruzione piramidale necessaria per mantenere il controllo del gruppo e nello stesso tempo consentire di finanziarne lo sviluppo. L’avvocato Agnelli orgogliosamente rivendicava il ruolo che non solo in Italia hanno le imprese familiari: ma la Fiat é stata un modello per il capitalismo italiano quanto a braccio di leva con cui a partire dall’accomandita per azioni (un’invenzione finanziaria diffusasi a seguito di questa sua applicazione), a IFI (ordinarie e privilegiate), a IFIL, a Fiat, si controllano le partecipate esse pure quotate. La complessa costruzione ha offuscato la percezione di quanto stava avvenendo, non ha evitato gli errori dalla seconda metà degli anni 90, e ha impedito che vi si ponesse rimedio: anche a causa di questa ragione oggi il gruppo non riesce né a trovare gestori, né a cedere la proprietà.
“Terra mare cielo” stava scritto all’imbocco dell’autostrada Torino-Milano, essa pure di proprietà della Fiat. Nella Fiat di Valletta, era una strategia figlia dall’era autarchica: sotto Giovanni Agnelli diventò la strategia della conglomerata. Mentre i mercati si aprivano e la concorrenza incominciava a mordere in tutti i settori, il gruppo cercava di compensare negli altri settori le perdite di quote di mercato nel core business dell’auto. Sull’alternativa tra modello che ponesse l’auto al proprio centro o che privilegiasse la diversificazione, si sono esercitate generazioni di manager e consulenti. L’avvocato ha sempre respinto l’idea di vendere l’auto, e per questo la famiglia ha pagato un prezzo carissimo sul piano patrimoniale. Una determinazione che merita rispetto, perché compiuta non solo per la memoria di un altro Giovanni Agnelli che l’Auto aveva costruito, ma – credo – anche per il ruolo che le era collegato: il portabandiera dell’imprenditoria italiana non può dare il segno della ritirata. Ma la famiglia non ha avuto il coraggio di fare l’altra scelta, quella di concentrarsi tutta sull’auto. Ancora pochi anni fa, non essendo riuscito a rafforzasi nell’auto acquistando la Volvo, il gruppo decise di rafforzarsi nei trattori comprando la Case: come se le due scelte fossero intercambiabili. Al fordismo era succeduto il toyotismo, le isole di montaggio avevano preso il posto delle catene rigide, si cercava la qualità innovando nelle relazioni industriali. E Fiat investiva meno dei suoi concorrenti sia in tecniche di produzione, sia in modelli. Ma se non si investe, non é perché mancano i mezzi finanziari, ma perché mancano le prospettive degli utili futuri, perché manca la fiducia. Vale per la Fiat, vale per il Paese.
Ci fu un momento in cui sembrò che l’imprenditoria italiana potesse mettersi alla guida della modernizzazione del Paese, e fu il progetto illuminista dell’alleanza dei produttori: “basta deleghe” si andava dicendo. Gianni Agnelli fu uno dei protagonisti di quella stagione, il patto con Lama sul punto unico della scala mobile fu il pesante investimento che il mondo delle imprese fece per coprirsi il fianco sul lato sindacale. La DC fece fallire il progetto. Invece di diventare il Walter Rathenau italiano, Gianni Agnelli dovette guidare una Fiat “governativa per definizione”. Per definizione o per necessità?
Qui sta il punto: forme di governance, modelli aziendali, scelte tecnologiche e di investimento, non sono dati antropologici dei nostri imprenditori, ma dipendono dall’ambiente politico e dal modo con cui le imprese si rapportano a esso. Ricordiamocene, nel giudicare un uomo come Gianni Agnelli.
gennaio 25, 2003