di Marco Valerio Lo Prete
Accusa Debenedetti: Monti vuole cambiare la politica a colpi di tecnocrazia, oltre destra e sinistra. Lo difende l’americano Gardels: la democrazia è tante cose, non è solo la conta delle teste, in America gli apparati tecnici integrano il consenso. Il “modello cinese”
“Il peccato del professor Monti”, pamphlet di Franco Debenedetti in uscita oggi per Marsilio, “nasce dalla preoccupazione”. Il timore è che in Italia sia “in atto un tentativo di cambiare radicalmente il discorso politico”. Sul banco degli imputati, intellettualmente parlando, c’è il presidente del Consiglio uscente (e di fatto ricandidato), Mario Monti.
Per l’imprenditore, ex senatore dei Ds, oltre che columnist liberal-liberista, infatti, l’ex presidente della Bocconi ragiona come se “la disponibilità a introdurre riforme debba prendere il posto di quel retaggio storico fatto di entusiasmi, passioni e anche sofferenza, che siamo soliti indicare con i nomi di destra e sinistra”. Che si condividano o no le riforme proposte da Monti – e Debenedetti certo non le respinge in blocco, anzi – il problema è tutto nel prospettato primato del “modello tecnocratico” rispetto alla “dialettica di parti politiche contrapposte tra loro”.
Interrogato sul tema, Nathan Gardels, giornalista e politologo, collega di Monti nel Berggruen Institute e da Monti stesso lodato nel suo libro “La democrazia in Europa” (scritto con l’eurodeputata Sylvie Goulard per Rizzoli), ammette la “novità” estrema dell’esperienza montiana, ma non concede nient’altro al giudizio critico di Debenedetti. L’attuale premier tecnico ha dovuto fare fronte a “circostanze nuove, generate dalla crisi dell’euro all’interno di una più complessiva crisi globale”, dice al Foglio. “Senza la stabilizzazione delle finanze pubbliche italiane a opera di Monti, in un contesto in cui l’euro impediva di svalutare, il paese presto non sarebbe più stato in grado di finanziarsi sui mercati. Monti non ha creato il mercato globale dei bond statali, questo mercato è una realtà”. La novità, che Gardels ha teorizzato nel libro “Intelligent governance for the 21st century”, edito da Polity, è che nel corso della sua opera di stabilizzazione Monti ha perfino incarnato una rivoluzione del modello democratico finora conosciuto. Una democrazia “depoliticizzata”, a trazione “elitaria e tecnocratica”, un ibrido tra “democrazia del consumatore” di stampo americano e “mandarinato moderno” cinese, tutto in nome delle urgenti e necessarie riforme. Il ragionamento di Gardels echeggia i giudizi di Monti sui conservatorismi paralleli di destra e sinistra, l’enfasi del professore sull’“interesse generale” al di sopra degli interessi di parte, anche a costo di far saltare riti consolidati come la concertazione con sindacati e imprenditori: “Il combinato disposto di politica faziosa dei partiti e di orizzonte a breve termine degli elettori – chiosa Gardels – ha reso il sistema italiano non all’altezza della sfida che gli si parava davanti. L’Italia era paralizzata, i rendimenti sui Bot però continuavano a salire. Così si giustifica l’opzione scelta dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, quello che molti chiamano ‘governo tecnocratico’ ma che io preferisco definire ‘un’isola di buona volontà non faziosa’”. O, ancora meglio, “un interruttore automatico, uno di quei dispositivi di sicurezza che servono per interrompere un flusso di corrente elettrica quando un impianto è colpito da un cortocircuito”. Nel caso del nostro paese, il cortocircuito aveva trasformato “una democrazia in una vetocrazia”, dice Gardels. Il fenomeno non è solo italiano: la democrazia è in difficoltà di fronte all’integrazione crescente e sempre più veloce dei mercati da una parte, e alla sbornia di democrazia diretta e dittatura dei media in real-time, brodo in cui si alimenta la cultura del “tutto, subito e gratis”, o “della Diet coke”. Ergo: la democrazia rischia di perdere “legittimità”, e su questo il Gardels-pensiero coincide con il Monti-pensiero.
Tutto ciò però non è sufficiente, replica Debenedetti, per pensionare “l’asse politico destra-sinistra”, con il rischio di declassare il politico a “consulente”. Gardels relativizza anche quest’accusa all’attuale premier: “La ‘governance intelligente’ non è un modello da replicare, ma quell’equilibrio da ricercare tra sovranità popolare e capacità istituzionale di raggiungere obiettivi di governo”. La “politicizzazione” non può essere un fine in sé: soltanto partendo da questo assunto si può arrivare, da parte di un californiano cresciuto a pane e referendum, a sostenere una necessaria “ibridazione” del modello occidentale con quanto di meritocratico e decisionista c’è nel regime cinese. “Intendiamoci: la Cina ha bisogno di maggiore politicizzazione, siamo noi a doverne cedere un po’”. Ciò non vuol dire entrare automaticamente nell’èra della tecnocrazia senza limiti o della post-democrazia: “Chiedete a un antico greco, abituato a un regime dove i governanti venivano sorteggiati, se le nostre elezioni non gli sembrino ‘post-democratiche’. Il punto è che la democrazia non si esaurisce nel concetto ‘una persona, un voto’. I Padri fondatori americani erano contro la monarchia ma anche contro il governo della massa”. Da qui la nascita di istituzioni terze, tecnocratiche, che possono prendersi il tempo di “deliberare” per il meglio. “Isole di buona volontà non faziosa, appunto, come le Banche centrali e le Corti costituzionali”. Si tratta di approfondire, con originalità, altri sistemi di “autorità delegata” ad élite preparate e selezionate meritocraticamente. Il fatto che “Monti candidi un’agenda” va ancora in questo senso, conclude Gardels. Nessun “peccato capitale”, insomma.
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febbraio 6, 2013