di Franco Debenedetti e Natale D’Amico
“Sui tamponi bisogna cambiare strategia, aumentando il numero di test”. A dirlo è Gianni Rezza il direttore di infettivologia dell’Iss dopo la diffusione dell’appello per tamponi di massa lanciato il 5 maggio da Andrea Crisanti, Luca Ricolfi, Giuseppe Valditara e sottoscritto dai professori di Lettera 150. E questo non solo per la fase 2, ma in generale: perché, aggiunge Rezza, “il Veneto ha fatto molto bene, ha fatto molti tamponi sul territorio: va fatto così in tutta Italia. Bisogna fare tamponi anche ad asintomatici e contatti stretti”.
Ormai tutti sappiamo che per bloccare un’epidemia ci sono due strategie: una è il lockdown dell’economia, per evitare che le persone vengano contagiate; l’altra è usare i test non solo per diagnosticare i pazienti, ma anche per tracciare tutti quelli che sono stati in contatto, e far loro il tampone anche se non hanno sintomi. In tal caso i tamponi devono essere molti di più.
Noi al principio abbiamo seguito la prima strategia. Per carenza di tamponi o di strutture sanitarie capaci di trattare almeno tutti quelli con sintomi gravi? Il caso veneto dimostra che era possibile una strada diversa, con risultati migliori, in termini di diffusione dei contagi e di decessi. Perché in Veneto sì e in Lombardia no? E, a livello nazionale, perché con più di 2 milioni di test effettuati, non è stato possibile somministrarne qualche migliaio a un campione rappresentativo della popolazione, col risultato che ancora oggi non disponiamo di una stima ragionevole dei contagiati effettivi? Perfino il capo della Protezione civile pensa che questi siano sottostimati almeno di un ordine di grandezza. Così non possiamo dire dove le persone si contagiano e, niente affatto meno rilevante, dove invece non si contagiano.
Prima o poi occorrerà indagare per comprendere cosa è successo: al principio dell’epidemia, quando sarebbero stati decisivi, sono stati fatti pochi test perché si sono seguite indicazioni sbagliate o perché mancavano gli strumenti diagnostici? Se si trattava di validare i reagenti, non si potevano incaricare i laboratori delle Università? Se la difficoltà stava nel fare l’esame perché, a differenza della Germania, sono stati esclusi dall’attività i laboratori diagnostici privati, anche quelli convenzionati con il sistema sanitario nazionale? È possibile che, già in fase due, il sindaco di Milano per fare esaminare i tamponi prelevati sul personale del trasporto pubblico debba inviarli in Francia? Sono morti in troppi, medici e pazienti: quale se non questa è l’occasione per incaricare dell’indagine un’alta commissione indipendente, lasciando che la magistratura si occupi dei casi a rilevanza penale?
Anche per evitare il ricrearsi di altre “penurie”. Il lockdown ha compresso sotto l’unità il tasso di riproduzione dei contagi. Per impedire che risalga con le riaperture, abbiamo scelto la strada della tracciatura dei possibili contagiati a mezzo app. Ma tutto ciò è inutile se, a monte e a valle, non ci sono le necessarie strutture. A monte per fare l’analisi, del tampone e sierologica, prima ai sintomatici e poi a quelli che non hanno sintomi, senza smettere finché solo il 3% risulta positivo: perché lo scopo è trovare chi potrebbe essere ammalato. A valle per tracciare quelli con cui hanno avuto un contatto, fare anche a loro il tampone, e così individuare i pre-sintomatici. E il tutto entro pochissimi giorni, se non si vuole che una parte dei contagi sia già avvenuto prima che si sia riusciti ad isolarli. Ma questo presuppone di essere in grado di trattare le persone entrate in contatto con i positivi: se si chiede loro di adottare una quarantena volontaria, assisterle sul piano sanitario, organizzativo, ma anche finanziario. Si è fatta una stima del numero di persone necessarie? Di come istruirle? Di chi è la responsabilità di assicurare che tutte e tre queste attività vengano svolte con tempestività ed efficienza?
La discussione tra coloro che vogliono riavviare al più presto l’attività economica e coloro che consigliano maggiore prudenza rischia di essere fuorviante. Ovviamente, se non vogliamo che alle vittime da coronavirus si aggiungano le vittime dell’indigenza, è necessario riaprire quanto più in fretta possibile. La discussione deve invece dirigersi verso la creazione di condizioni che rendano le riaperture meno rischiose.
Perché il tracciamento a mezzo smartphone abbia successo, deve essere adottato da parte di più del 60% della popolazione. Questo richiede che siano realizzate tre condizioni: che non ci sia paura per la propria privacy, che sia facile da installare, e che ci sia fiducia che serva. Quanto alla privacy, un sistema che non rileva ora e luogo del contatto, nel quale i dati restano sul telefonino e non vengono raccolti centralmente, vengono cancellati dopo 14 giorni, e con il divieto di usarli per usi diversi, dovrebbero offrire garanzie sufficienti. Quanto a facilità di installazione, la piattaforma base, valida per entrambi i sistemi operativi iOS e Android, verrà installata dai produttori, dovrebbe essere pronta per metà maggio, e già oggi è disponibile l’interfaccia su cui possono lavorare gli sviluppatori delle app dei singoli Paesi; se per il consenso invece di chiedere l’opt-in, si dà ad ognuno la facoltà di opt-out, arrivare al 60% sembra possibile.
C’è la terza condizione, la fiducia dei cittadini: perché alla fine tutto dipende dai comportamenti che le persone, le imprese e i lavoratori adotteranno. E questo a sua volta dipende dalla credibile promessa dell’apparato pubblico di saper fare quel che fin qui non ha saputo fare: testare, tracciare, trattare.
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