“Aver privatizzato le rete” telefonica è stato un errore: è davvero questa la posizione del Governo, come afferma il sottosegretario Antonello Giacomelli? E, in questo caso, che cosa intende fare? Proporre la costituzione di una commissione d’inchiesta? A rispondere di tale errore, non potendo chiamare l’allora Ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, chiamerà a giustificarsi l’allora presidente del Consiglio Romano Prodi? L’attuale premier sta gestendo situazioni complicate su molti fronti, interni ed esteri, non credo che desideri perdere tempo a riscrivere i libri di storia. Ci permettiamo, rispettosamente, di suggerirgli non già una smentita ufficiale, che sarebbe troppo onore, ma un personale invito al sottosegretario a non impegnare la posizione del governo su argomenti che appartengono, al massimo, a dibattiti e convegni di reduci.
In quei consessi il sottosegretario Giacomelli si sentirebbe ricordare che dalla Gran Bretagna alla Spagna, dalla Francia alla Germania, ovunque le società telefoniche sono state privatizzate insieme alla loro rete. La ragione per cui ciò è avvenuto è che la rete non è solo un insieme di cavi, tralicci, ponti radio ma anche di computer e di programmi software necessari affinché voce e dati in partenza da un utente vengano spacchettati, avviati sulla rete, ricomposti e fatti pervenire a destinazione. In una compagnia telefonica, al di fuori di questo complesso sistema non resterebbe che l’attività commerciale: fare i contratti con i clienti, fatturare, incassare e gestire i negozi. La possibilità di separare la rete venne discussa in profondità in Inghilterra, dopo la privatizzazione dell’operatore telefonico dominante, ma per ragioni affatto diverse: consentire ai concorrenti parità di condizioni di accesso a una “essential facility”. Si giunse però alla conclusione che organizzazione interna e sorveglianza esterna potevano ugualmente garantirla. In Inghilterra si chiama OpenReach, in Italia OpenAccess.
E se il sottosegretario Giacomelli replicasse che Inghilterra Francia e Germania ci battono quanto a copertura con fibra ottica, bisognerebbe far notare che questo deriva (anche) dal fatto che in quei Paesi esisteva la rete della televisione via cavo, facilmente upgradabile da cavo coassiale a fibra ottica. E’ appena il caso di ricordare che da noi, appena Peppo Sacchi a Biella iniziò a trasmettere nell’Aprile 1972, il governo emanò una legge che estendeva anche alla trasmissione via cavo la riserva di legge a Stet per la trasmissione di segnali radiotelevisivi. Addio alla TV via cavo e alle sue reti.
C’è da chiedersi se sia il momento giusto per riscrivere la storia. O se non rischiamo piuttosto politiche davvero anacronistiche. Se sarà profittevole l’iniziativa di Enel, benevolmente incoraggiata dal Governo Renzi, di sfruttare provvidenziali sinergie con la posa dei contatori elettronici per portare la fibra prima nelle aree cosiddette a fallimento di mercato, e poi nelle città, lo giudicheranno gli azionisti privati che hanno la maggioranza delle azioni dell’incumbent elettrico. Sulla possibilità che anche TIM investa (a sue spese) nelle “aree bianche” dove vuole operare OpenFibre (con la sovvenzione dello Stato), si è verificata una frizione tra l’allora AD Cattaneo ed il Ministro Calenda, peraltro subito ricomposta, come dichiarato da Calenda proprio a questo giornale.
Gli investimenti sarebbero “inadeguati rispetto alle esigenze di questo Paese” dice Giacomelli. Ma il sottosegretario alle Comunicazioni non dovrebbe ignorare che il piano triennale di 11 mld € è il è più grosso investimento in Italia; che la copertura al 85% del Paese con minimo 30 Mb/sec avverrà con un anno di anticipo, e cioè a fine 2017; mentre l’anno successivo raggiungerà il 95% delle famiglie italiane; che la copertura del mobile 4G è al 98% del territorio nazionale; che TIM è la prima o una delle prima telecom ad avere iniziato la sperimentazione del 5G, necessario per far fronte all’enorme aumento delle comunicazioni dell’Internet of Things; che nelle “zone bianche “ in cui si è portata la fibra non aumenta il consumo di connettività, confermando quanto da tempo si andava dicendo che il cosiddetto “fallimento di mercato” era dovuto a mancanza di domanda, non di offerta. Lo stesso piano del governo dimostra che a fare gli investimenti servono i soldi, non la proprietà dell’infrastruttura.
E invece proprio di proprietà si continua a parlare. E’ ancora la vecchia storia della società delle reti: una società in cui aggiungere la quota di controllo delle rete TIM a quelle già possedute di Terna rete elettrica e di SnamReteGas. Perché solo lo Stato, naturalmente, può salvarci da chi sennò ruberebbe i cavi dell’alta tensione, per fonderli e vendere il rame; solo lo Stato può difenderci da chi potrebbe dissotterrare i tubi dei metanodotti; solo lo Stato può proteggere dagli hacker le linee di trasmissione vitali per la sicurezza nostra e dell’Occidente, meglio di come (non) abbia saputo fare il Pentagono con le sue.
Al sogno della società delle reti manca solo l’acqua. Non fosse per il referendum che ha proibito di “privatizzare l’acqua” come hanno voluto far credere, e quindi ha deciso che debbano restar pubblici i bacini in cui la si raccoglie, i tubi in cui la si convoglia, le valvole con cui la si regola, ci sarebbe stata un’altra rete da ristatalizzare. E’ noto che l’attore pubblico ha investito e potenziato un sistema idrico che, a detta della autorità che non sanno come rimediarvi, “fa acqua da tutte le parti”. Forse è il caso di ripensarci.
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