Per una legge di sistema del settore delle comunicazioni la privatizzazione della RAI è lo spartiacque. Se la si porta a compimento, il settore cambia fisionomia, il campo di gioco si allarga, si consente a nuovi attori di entrare in gioco. In caso contrario, rimane l’oligopolio coatto, si blocca ogni possibilità di evoluzione verso un mercato concorrenziale.
Per molte ragioni, già dettagliatamente discusse, qui solo richiamate: perché solo una RAI privata e contendibile sarebbe liberata dalla dipendenza dalla lottizzazione politica e dalle rendite di posizione che essa legittima; consentirebbe una chiara individuazione di ciò che il canone è destinato a pagare. Ma soprattutto perché sarebbe è il solo modo per avere un concorrente di Mediaset. In una RAI privata in un mercato concorrenziale tutte le esigenze possono essere soddisfatte: la libertà di iniziativa economica di altri soggetti; la legittima aspirazione a crescere di Fininvest; l’esigenza di servizio pubblico – perfino nella forma di una presenza del pubblico; il pluralismo – perfino se si decidesse di perseguirlo limitando il numero delle concessioni. Naturalmente, e la precisazione è essenziale, intendendo per “privata’ una società le cui azioni sono tutte in mano a soggetti privati, o a persone giuridiche controllate da soggetti privati (dunque né fondazioni né Fondazioni, tanto per intenderci); in cui il Governo non dispone di diritti speciali, tipo golden share; in cui eventuali limiti alle quote di possesso siano suscettibili di essere modificati con delibere di assemblea straordinaria.
Se invece non si privatizza la RAI, eliminare gli steccati tra carta stampata e TV può solo servire a Fininvest per ulteriormente aumentare la sua posizione dominante. Chi altro potrà insidiarla? La legge che voleva essere di sistema istituzionalizza il sistema esistente, rendendolo ancor più squilibrato verso l’operatore dominante. Con l’aggravante della circonvenzione di incapace, verso quelli che verranno indotti a dare al Tesoro dei loro risparmi per acquistare quote minoritarie di una RAI controllata dal pubblico. Uno sconcio!
I nemici della RAI privata sono molti, e diverse sono le loro motivazioni. Proviamo ad elencarli.
- Berlusconi. Il proprietario di Mediaset non ha nessun interesse a liberare il suo unico concorrente dai vincoli che lo frenano: Commissione di Vigilanza, contratto di programma, criteri di scelta dei vertici in cui quello dell’efficienza non è certo al primo posto, tetti pubblicitari più bassi. Ma il leader della Casa delle Libertà non può ignorare che una cosa è vincere le elezioni, sostenendo il proprio diritto a conservare la (mera?) proprietà dell’azienda che ha creato; tutt’altra è usare il potere così conquistato per proteggerla da possibili concorrenti, aumentare la sua dominanza, e guadagnare di più. Berlusconi può fare approvare una legge con una falsa privatizzazione: quia sum leo. Ma non è detto che gli elettori non sappiano distinguere tra difendere il passato e ipotecare il futuro.
- Usigrai. Il sindacato dei giornalisti gode di una posizione di potere: la perderebbe con una RAI privata in un sistema di mercato. Non c’è nulla da controproporre.
- I fautori del modello BBC, a cui dà autorevole voce Claudio Petruccioli, presidente della Commissione di Vigilanza RAI. Vogliono una televisione pubblica forte, per qualità e autorevolezza, un vero servizio pubblico, non confinato nella “riserva indiana” di una sola rete, tipo l’americana PBS. Quindi RAI 1 e 2 col solo canone, e RAI 3 sul mercato, destinata ad aggregarsi con altre TV private ( e il pensiero é La 7). Obbiezione: è una strada impossibile verso una soluzione non desiderabile. A differenza della BBC, la RAI dopo decenni di lottizzazioni, è politicizzata fin nel midollo (v. sopra). Le aziende sono organismi viventi, hanno una loro cultura, una inesorabile path dependance. Bisognerebbe distruggerla, spargere sale, rifarla: e dotarla di un canone almeno doppio dell’attuale. Ne vale la pena? Già anche la BBC non è esente da critiche, e proprio sul tema dell’indipendenza politica. E poi, nell’èra delle televisione commerciale e della moltiplicazione dell’offerta, é più una tradizione che sopravvive grazie al suo passato, che un modello per il futuro.
- I protettori della carta stampata. Le Tv, lamentano gli editori, catturano una quota spropositata della pubblicità. Chiedere direttamente di ripartirla in modo diverso con un intervento di stampo dirigistico, sarebbe poco elegante. Meglio la strada indiretta, più pubblico per avere protezione pubblica: la RAI resti pubblica, se possibile ancora più pubblica, cioè con meno pubblicità e più canone. Ma non è con posizioni rinunciatarie che si difende la libertà di stampa in questo paese.
- Privatizzare sì, ma con lo spezzatino RAI, propone Massimo Riva su Repubblica. Si vendano RAI 1 e RAI 2 separatamente (more solito, RAI3 immolata all’ideologia del servizio pubblico). Così, sostiene, Berlusconi sarà obbligato a fare anche lui lo spezzatino di Mediaset. Se la tesi fosse vera, renderebbe la proposta impraticabile: sarebbe una ragione in più per Berlusconi per non privatizzare. In realtà la proposta sembra voler consentire ai due maggiori gruppi editoriali di spartirsi la RAI senza un’asta al rialzo. Con un pregiudizio: che le reti non si specializzino per preferenze politiche. Invece gli inserzionisti le vogliono specializzate per categorie di destinatari di pubblicità, e con una rete non si riesce a mettere insieme un’offerta interessante: non oggi con un solo programma analogico, non domani con un multiplex di soli 5 programmi digitali.
- I “costituzionalisti”: chiedono la puntuale esecuzione della sentenza della corte costituzionale, Rete4 sul satellite e RAI3 col canone e senza pubblicità. Vengono a torto arruolati tra i nemici della privatizzazione, mentre essa è del tutto compatibile con l’osservanza della sentenza. Piuttosto c’è da chiedersi se una RAI privata, un mercato concorrenziale, la presenza di Sky, il digitale che si avvicina, non configurino una situazione diversa rispetto a quella in cui la Corte ha emesso la sua sentenza.
- Il partito RAI, un partito trasversale, con larghi sostegni a destra e a sinistra, con numerose sfaccettature. In realtà è l’ambiente che fa da terreno di cultura e da cassa di risonanza anche alle precedenti obbiezioni. Anche argomenti diversi o contraddittori tra loro sono uniti da un’ideologia comune: una viscerale diffidenza verso il mercato. C’è un mondo di “valori” che va sottratto alla concorrenza, all’auditel, e che solo la proprietà pubblica può fornire. Leggi, regolamenti, contratti, men che mai automatismi del mercato, non sono garanti affidabili: ci vuole la proprietà pubblica. Il partito RAI vuole mantenere sostanzialmente le cose come sono, propone cure omeopatiche, o autentici placebo. Contro la privatizzazione, ricorre all’ipse dixit: il trattato di Nizza, Ciampi, la Corte. Oppure fa obbiezioni assiomatiche. Come quella che nessuno comprerebbe (ma invece ritiene credibile che ci sia la folla di chi vuol comperare l’1%). O che si ricaverebbe troppo poco (ma senza dire quanto sia). O che a comprare sarebbero Murdoch o Al Waleed o un amico di Berlusconi (a parte il fatto che la legge Maccanico prevede che RAI possa essere acquistata solo da cittadini europei, il bello è che questa paura svanisce quando chiedono a Berlusconi di vendere). O che “è ben altro il problema”, lui venda Mediaset, che alla RAI ci pensiamo noi (con il che gli si lascia tutto in mano, e si denuncia il “pericolo democratico”).
L’elenco non ha la pretesa della completezza, ma un dato emerge in modo chiarissimo: tutti forniscono a uno solo gli argomenti per non privatizzare la RAI, tutti giocano a favore di Berlusconi. Per quelli, e sono molti, che fanno parte dell’opposizione, la posizione è paradossale. Berlusconi avvierà la privatizzazione della RAI e la digitalizzazione delle reti: avrà l’immagine di modernizzatore del sistema, e la sostanza del controllo del sistema. L’opposizione gli concede tutto, le beurre et l’argent du beurre.
Basterebbe vedere il suo gioco, esigere una data impegnativa per la totale dismissione della RAI. Nessuna delle forze politiche e culturali all’opposizione ha il coraggio di impegnarsi per una battaglia da cui dipende la sorte del nostro sistema di comunicazioni. Non quelle, illuminate, che si oppongono a Berlusconi in nome della modernizzazione del paese; non quelle che vedono nel suo controllo dei media un pericolo per la democrazia. Sullo spartiacque, solo scaramucce verbali.
luglio 8, 2003