Vivendi azionista di riferimento di Telecom e in amichevoli conversari con Mediaset; le misteriose opzioni di Neil; la partita brasiliana, già considerata una Stalingrado, che si apre; Renzi che, di fronte a una possibile fusione con Orange, dichiara di voler lasciare al mercato fare la sua parte: non c’è che dire, nel mondo delle TLC stanno avvenendo cose fino a poco tempo fa impensabili. L’unica di cui non si parla è la RAI: che non lo facciamo i protagonisti di queste vicende è comprensibile, non hanno tempo da perdere. Meno logico, per governo e contribuenti, è che non se ne parli affatto: non è la nostra maggiore industria culturale?
L’irrompere delle nuove tecnologie ha modificato in profondità il contesto concorrenziale ed economico del sistema audiovisivo. Ma pone problemi anche alle Authority, in tema di regolazione, e al governo in tema fiscale. Ed è in quel contesto che vanno poste le nuove opportunità per i newcomer, le sfide per gli incumbent. Nella cassetta degli attrezzi, le Authority avevano il mercato di riferimento, la posizione dominante, il mercato a due versanti: oggi quegli strumenti appaiono inadeguati o difficili da applicare a modelli di business cambiati in modo radicale rispetto a quelli per cui erano stati pensati. Il calcolo del punteggio della commissione Bogi, il 20% per la carta stampata, il SIC della legge Gasparri, sono probabilmente sconosciuti a gran parte dei lettori. Eppure non sono trascorsi tanti anni da quando su di essi si sono combattute animate battaglie, sui giornali e in Parlamento. Stessa cosa per il regime fiscale: esso si basa sul presupposto che le attività economiche si svolgano all’interno di confini geografici, e quindi incontra problemi quando queste stanno sulla nuvola del cloud, quando un oceano separa i server su cui girano gli algoritmi e il mondo degli utenti e dei clienti. Ma anche restando in Italia, che senso ha il canone RAI, originariamente legato al possesso del televisore, quando questo è usato come monitor dello smartphone? Che senso avrà, quando Enel da un lato raccoglie il canone in bolletta, dall’altro porta in casa la fibra per scaricare tutto dalla rete?
Ma il cambiamento decisivo, per l’Italia, è quello del contesto politico. Oggi che la parabola politica di Berlusconi volge al termine, sembra appartengano a un’altra era geologica le battaglie per bloccare la televisione privata (remember le dimissioni dei sei ministri del Governo Andreotti per la legge Mammì?), poi contro la presunta ingordigia del Caimano (remember i girotondi?). La sola idea che Mediaset potesse acquisire Telecom suscitava sdegno, il solo timore che potesse farlo Murdoch ne provocava il cambio di proprietà. Solo una TV non commerciale, dicevano i campioni del politically correct, può fare programmi di qualità. I più audaci accarezzavano il mito di una public company posseduta da una Fondazione, e davano del talebano del mercato a chi faceva piani su come per privatizzarla.
Il pericolo non è più che qualcuno possa acquisire a RAI: il rischio è che essa possa restare isolata nel suo castello turrito, che anno dopo anno perda gli ascoltatori che ancora credono in lei, che venga lasciata indietro da un mondo che cambia. La nuova modalità di riscossione del canone, pensata come soluzione dei suoi problemi, rischia di aggravarli.
Per adattarsi al nuovo contesto, per prima cosa la RAI dovrebbe avere conti strutturalmente simili a quelli dei suoi concorrenti. Invece i suoi 13.000 dipendenti sono il doppio di quelli di Mediaset; e quanto a dirigenti, è ancor peggio. Le “risorse” (cioè le entrate) vengono dal canone per 1700 milioni, dalla pubblicità per circa 700 milioni. Se ridurre 5000 organici appare impossibile, essere coscienti di doverli ridurre è necessario. In RAI le “produzioni^ sono tutte commissionate all’esterno. Per quelle di fiction RAI potrebbe ridurre la quota di finanziamento dall’attuale 100% al 50%, concedendo in cambio al produttore lo sfruttamento all’estero. Questi dovrebbe così cercarsi altri acquirenti.
Con il canone in bolletta elettrica, si prevedono circa 200 milioni di “risorse” aggiuntive per RAI. Un costo per i produttori elettrici (si pensi solo al contenzioso), che verrà pagato dagli loro utenti. E’ giusto che queste risorse non siano un perverso incentivo a mantenere le cose come stanno, e siano invece subordinate a piani impegnativi di recupero di produttività. Alternativamente potrebbero essere impiegate per abbassare il limite di affollamento pubblicitario, a vantaggio degli altri operatori. Oppure per ridurre il canone: non si è sempre detto che i proventi della lotta all’evasione devono andare a ridurre le imposte? La riduzione sarebbe poco rilevante, quasi simbolica. Ma sarebbe un esempio: simbolico anch’esso, e non irrilevante.
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