Calciopoli – Qualche proposta (liberale) per Guido Rossi
“Arbitro venduto!” ci sgolavamo a gridare, ragazzini, dagli spalti del Comunale. In campo c’erano Borel e Sentimenti IV, Parola e Boniperti. Luciano Moggi, credo, non era neppure nato.
Ogni sport ha un suo intrinseco tasso di “illegalità”. Al Palio di Siena comperare i fantini avversari, pagare stallieri per avvelenare il cavallo della contrada nemica, fa parte del gioco. Il wrestling è totalmente finto, eppure ha campionati e campioni. Sul mondo dell’ippica aleggia il sospetto di trucchi, ma la gente continua a scommettere.
Anche il calcio ha un suo tasso di illegalità intrinseca: il tifoso grida “arbitri venduti”, ne discute le malefatte, ma perderebbe ogni interesse se percepisse il gioco come truccato; accetta il predominio delle grandi squadre, ma deve potersi entusiasmare per i successi dei Davide provinciali. E’ il tifo, il “valore di avviamento” di ogni società singolarmente e di tutte le società collettivamente: se si supera il livello di “illegalità” intrinseco quel valore va a zero. Alimentarlo con le polemiche, ma preservare i presupposti su cui si basa, è compito delle società. E’, soprattutto , il loro interesse.
Questo livello è stato superato, come le intercettazioni hanno rivelato; non erano mancati i segnali, ma i club non sono intervenuti a porre rimedio. Così oggi si reclama a gran voce l’intervento della magistratura per ristabilire la “legalità”. Il ministro Castelli, lasciando il suo ufficio, manda un’ispezione a Torino, dove il procuratore Maddalena aveva dichiarato essere senza rilevanza penale il contenuto delle intercettazioni. Ancora una volta si attribuiscono allo Stato capacità salvifiche. Ancora una volta occorre far ricorso ai principi liberali per salvare il campo del privato da indebite ingerenze della mano pubblica. E per evitare che la magistratura, che già non riesce a tener dietro ai propri compiti ordinari, si vada a impelagare in questioni che per loro natura devono avere l’aleatorietà del gioco. Vogliamo la presenza della Guardia di Finanza al sorteggio degli arbitri, le intercettazioni per le loro preselezioni, la moviola in procura? Vogliamo esigere par condicio nelle proiezioni degli episodi contestati nei vari “processi” televisivi? Regolamentare conflitti di interesse tra padre gestore di club e figlio gestore di giocatori? Indagare se si configura un “potere di mercato” cui applicare le normative antitrust? Istruiremo processi e metteremo sotto controllo il telefonino di un giocatore che “si mangia” un goal già fatto? La magistratura ordinaria ha svolto un ruolo di supplenza in una situazione eccezionale: ma guai a fare diventare il suo intervento la norma. Si possono configurare vari reati (truffa, abuso della credulità popolare, falso in bilancio) ma si tratta di fattispecie da perseguire quando si verificano, ex post, non generalizzando un sistema di prevenzione.
I club di calcio sono imprese che producono contenuti, le partite. A questa mission aziendale se ne sono aggiunte altre: merchandising, gestione di impianti sportivi, a volte con annessi centri commerciali, creazione di propri palinsesti televisivi. Per l’acquisto dei giocatori, per la vendita dei diritti pubblicitari, per il merchandising del marchio, i club devono ricorrere al credito, quindi costituirsi come società di capitali, e magari quotarsi. Ma è essenziale distinguere tra lo spettacolo e la sua organizzazione, tra le regole che devono seguire gli “attori” e quelle cui deve sottostare chi li gestisce. Per quanto riguarda il rapporto con dipendenti, fornitori, clienti, banche, fisco i club hanno ( rectius: devono avere, senza le tante ingiustificate deroghe di favore) gli stessi obblighi delle altre società. Ma per gli spettacoli che gestiscono valgono regole autonome. I due settori sono contigui, con scambi reciproci: ma è essenziale mantenere chiara la distinzione, se vogliamo evitare che lo spettacolo finisca distrutto dalle regole e le Autorità di controllo finiscano invischiate in questioni improprie. Se la sentenza Bosman è stata un errore, è proprio perché non si è riconosciuta la distinzione tra i due àmbiti.
Adesso si invocano misure radicali, “fare pulizia rimettendo ordine, restituendo ai giocatori la serenità e ai tifosi la certezza che il calcio è un mondo pulito”. (Piero Fassino, La Stampa, 16 maggio). Si sente parlare di rinviare (di quanto?) la partenza del campionato: sarebbe una “lezione” indubbiamente efficace per indurre i club ad agire su organizzazione e regole del gioco. Ma la soluzione sistemica consiste nell’agire sulle società, con gli strumenti del diritto societario. Il punto d’attacco sono i bilanci, e in primo luogo la prassi di gonfiare il “magazzino”, attribuendo valor di fantasia ai cartellini dei calciatori, e così ottenere maggiori crediti dalle banche. Bisogna imporre limiti, nel conto patrimoniale, al rapporto tra il valore dei beni reali e quelli attribuiti al parco calciatori, e nel conto economico, tra premi e stipendi per i giocatori e totale delle entrate.
L’autonomia delle regole dello spettacolo, e il limite “liberale” da porre all’intervento dello Stato ha evidentemente una sua contropartita, e cioè che cessi anche l’indebito salvataggio da parte dello Stato, come è stato invece fatto accettando dilazioni nel pagamento dei contributi, così da rendere “inevitabile” il provvedimento spalma-debiti. E pensare che, per giustificarlo, si erano addotte ragioni di ordine pubblico, timori per la rivolta dei tifosi: tra le due eventualità, retrocedere ai gironi inferiori per debiti o per illeciti, il vero sportivo dovrebbe, semmai, preferire la prima.
maggio 20, 2006