Economia e lavoro
La denuncia dei limiti intrinseci dei contratti collettivi di lavoro, che ne fanno strumenti inadatti a regolare i rapporti sindacali in una società moderna, esposta da Pietro Ichino sul Corriere della Sera, gli sono valsi critiche e consensi. Solo che le critiche gli son giunte da sinistra, nella settimanale riflessione politica di Eugenio Scalari, e i consensi dalla destra sociale, in un’intervista, sempre su Repubblica, del Ministro Gianni Alemanno.
E questo induce a considerazioni che vanno oltre la questione specifica, e che dimostrano quanto sia stretta la cengia su cui sono costrette a procedere le proposte modernizzatrici nella sinistra.
Eppure è su questi temi che la sinistra si gioca tutto: mantenere il consenso di chi di essa non fa più organicamente parte, e aggregarne di nuovo; salvarsi dallo scivolare nella funzione residuale di assicurare il controllo sociale, e saper mettere in campo nuove capacità organizzative.
Per modernizzare il Paese la sinistra deve modernizzare gli strumenti con cui ha costruito il suo consenso. Alcuni pesano e ingombrano. La superiorità morale teorizzata da Enrico Berlinguer diventa arma per il fuoco amico dei moralisti e per il dileggio degli avversari. Il collateralismo, quando i rapporti di forza si sono rovesciati, produce responsabilità senza potere. La mistica della cooperazione è fonte di ambiguità in grandi imprese che operano sui mercati in concorrenza.
E quando poi è il turno del sindacato, scattano resistenze e timori: nel militante, che si destrutturino organizzazioni, legami sociali, riferimenti personali; nell’intellettuale, che si destrutturino gli strumenti di coesione della società, e che gli individui finiscano per presentarsi nudi e isolati di fronte al un potere economico, e che allo Stato sia delegato il solo compito di “raccogliere gli sconfitti lasciati al bordo della strada”. I rapporti di lavoro diventano così l’hic Rhodus della capacità modernizzatrice della sinistra.
Proprio a rassicurare quanti temono di perdere la propria anima, può servire il confronto con la posizione di Alemanno. La sua adesione alle proposte di Ichino si confronta con il nulla di fatto in 5 anni dal Governo di cui fa parte, anche solo per mettere in discussione la sostanziale inderogabilità a un contratto nazionale che non ne avrebbe i requisiti costituzionali (questo è l’effetto pratico, ad esempio, delle norme che condizionano all’applicazione integrale del contratto nazionale la possibilità di avere commesse da enti pubblici, di godere della fiscalizzazione degli oneri sociali, di stipulare un contratto di apprendistato). Il suo pragmatismo conferma il modo ottuso e confuso con cui questo Governo ha affrontato le riforme del lavoro. Ottuso è stato l’uso dell’articolo 18 per separare CGIL da CISL e UIL, una spaccatura risoltasi poi in indebolimento proprio dei soggetti che si erano scelti come interlocutori privilegiati. Confuso è l’approccio alla riforma del diritto del lavoro di un governo che proclama di voler semplificare e flessibilizzare, ma riesce soltanto a moltiplicare i tipi di lavoro marginale senza cambiare una virgola della disciplina del lavoro a tempo pieno e indeterminato. Al contrario, le riforme dei licenziamenti e dei rapporti sindacali proposte da Pietro Ichino, e che io presentai in Senato, si inseriscono in un progetto organico, che va dal collocamento, agli ammortizzatori sociali (che oggi si direbbero “danesi”), all’estensione ai lavoratori atipici, fino al nodo centrale, quello della riforma delle rappresentanze sindacali.
Il sindacato troppe volte è un ostacolo alle innovazioni nei prodotti e servizi offerti dalle imprese e nel modo di organizzare le risorse. Lo è in modo clamoroso nel mondo dei servizi, laddove i sacri principi in realtà puntellano piccoli e grandi privilegi, a danno dei lavoratori esclusi e dei cittadini insoddisfatti. Sindacati gialli, come teme Scalfari? Ma di che colore sono i sindacati che tollerano forme di lotta come quelle di questi giorni dei dipendenti Alitalia, fuori da tutti i protocolli sottoscritti dalle parti? Un pericoloso precedente per una stagione che non promette nulla di buono. Grazie anche agli errori degli imprenditori nella vicenda dei metalmeccanici – un anno senza contratto, con scioperi costati cari, senza ottenere le modifiche al sistema della contrattazione che chiedeva la CISL, per poi pagare quanto chiedeva la FIOM – alla fine della doppia stagione congressuale dei due grandi sindacati, è prevedibile che in CGIL l’ala antagonista entri di forza in segreteria, e che la CISL torni sotto il tallone della cinghia di trasmissione partitica, mettendo la parola fine all’autonomia della segreteria Pezzzotta.
Sta nascendo la “società low-cost”, come recita il titolo del libro di Gaggi e Narduzzi recensito da Francesco Giavazzi sul Corriere di martedì, popolata da aziende di tipo nuovo, “che si propongono di eliminare tutti i costi e gli intermediari inutili che difendono interessi diversi da quelli dei consumatori, aziende nuove in cui non vi sono dipendenti che difendono le loro rendite”. Sembra attuarsi, seppure in un senso del tutto diverso, la profezia di Marx nel Manifesto: “Ogni cosa solida evapora, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare le loro contrapposte relazioni con occhi disincantati”.
Il problema, per il Paese, è quello di favorire queste trasformazioni. La sfida, per la sinistra, è di fornire strumenti e proposte che le accompagnino dando pieno sostegno a chi non riesce a tenere il passo, realizzando la necessaria garanzia dinamica delle pari opportunità per tutti. È sulla sua capacità di dare un contributo originale decisivo alla modernizzazione del Paese, contro vecchie e nuove posizioni di rendita, che si gioca la sua ragione d’essere. Oggi, e domani nel Partito Democratico.
gennaio 26, 2006