Oggi è la comunità nazionale che paga i danni delle catastrofi naturali, con la fiscalità generale, e a volte con tributi specifici; sovente paga anche gli ingenti utili che alcuni fanno con le catastrofi. Ma chi propone un’assicurazione obbligatoria contro questo tipo di danni, non lo fa per risolvere più equamente e limpidamente un problema distributivo. L’obbiettivo è quello di ridurre i costi, agendo alla loro origine.
Si pensa che le assicurazioni funzionino meglio dello stato nel valutare ex ante il rischio di ogni casa assicurata; e che esse, con l’imporre premi commisurati al rischio, promuovano l’interesse degli assicurati a mettere in sicurezza i propri beni. Cioè un meccanismo automatico con uno strumento di mercato. Sul primo compito, nulla da dire, è un servizio dato in appalto: si tratta di vedere su quali polizze esso verrà spalmato dalle assicurazioni. E’ invece il secondo compito a destare perplessità. E’ chiaro infatti che in ultima analisi le assicurazioni vengono chiamate a svolgere un compito in cui la componente assicurativa ha un ruolo strumentale, un compito che spetta ( o che sarebbe spettato) alle amministrazioni pubbliche: concedere il permesso di costruzione, fare le opportune verifiche sulla qualità del progetto e dell’esecuzione (e magari, già che sono sul posto, anche della sicurezza sul lavoro mentre l’opera viene eseguita). E qui sorge il problema: noi non ci fidiamo, giustamente, dello Stato, ma fino a che punto possiamo delegare ad altri compiti delle pubbliche amministrazioni?
Prendiamo la mappatura del rischio geologico: il committente dello studio non può che essere pubblico, dato che il coordinamento tra le compagnie assicurative sarebbe troppo costoso. Ma poi lo studio deve essere recepito in norme. Leggo (nell’articolo di Mariano Maugeri sul Sole 24 Ore del 12 aprile) che la Regione Abruzzo aveva declassato il rischio indicato dall’Istituto nazionale. Se l’ha fatto è perché le conviene: se si declassa il rischio, fare le case costa meno, se ne faranno di più, ci saranno più permessi di costruzione da dare, e a parità di aliquote fiscali (tanto quelle non diminuiscono mai) più soldi per la pubblica amministrazione (e più tentazioni per i pubblici amministratori). Se si sono costruite case sulle pendici del Vesuvio, è per interesse. Interesse di chi aveva un campo e lo fa diventare terreno edificabile; interesse del comune che dà il permesso e che raccoglierà nel tempo le relative imposte. E se queste sono insufficienti a coprire il costo dei servizi (per esempio quello della raccolta rifiuti), nell’attesa del disastro “naturale”, qualcuno provvederà all’emergenza. A nessuno verrebbe in mente di proporre le assicurazioni per risolvere il problema dei rifiuti: ma a ben vedere le forze in gioco sono le stesse. Il problema rifiuti (ma altrettanto si potrebbe dire del trasporto urbano, o del traffico) hanno origine tutti dalla stessa causa, la rendita che può essere estratta dal territorio costruendoci sopra. Valore che proprietari, costruttori, e pubblica amministrazione hanno tutti interesse a far crescere: discutendosi solo sul modo in cui ripartirselo.
Se poi, invece che delle case che verranno costruite, si pensa a quelle già costruite, la cosa si complica enormemente. Se un proprietario non può o non vuole mettere in sicurezza la sua casa, cosa facciamo, mandiamo le ruspe? Chiediamo alle assicurazioni di surrogare lo stato anche nell’esercizio della forza? Si è fatto un calcolo del numero delle case da mettere in sicurezza, e del costo relativo? Dopo tutto si tratta di cifre che, per la loro entità, hanno effetti macroeconomici.
Non voglio dire che le assicurazioni non possano aiutare a risolvere parte del problema, a meglio spalmare i costi nel tempo e tra i cittadini, a ridurre la franchigia a carico dei colpiti. I sistemi assicurativi in altri paesi hanno funzionato, e noi abbiamo qualche ragione in più per sottrarre allo stato compiti che non sa svolgere, e che altri possono svolgere meglio. Ma c’è un confine che non può essere ignorato: lo Stato “è” controllo del territorio, lo è essenzialmente, per la sua stessa natura; ha una responsabilità non delegabile, un compito che nessuno può surrogare. Questo compito conferisce allo Stato un potere a cui sono legati interessi giganteschi. Se non si fa chiarezza su questa linea di confine, e su chi deve presidiarla, tutto quello che viene a valle sarà inquinato, e anche le migliori soluzioni finiranno per aumentare la confusione.
Questo è il problema vero. Ci sarà presto l’occasione di verificare se se ne ha coscienza: basterà vedere se ad andare sotto processo saranno prima i geometri e le imprese di costruzione, oppure i dipendenti pubblici che hanno dato i permessi e che dovevano fare i controlli. O magari quelli che hanno declassato il rischio sismico in Abruzzo e all’Aquila.
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aprile 15, 2009