La Lezione di Enron (5 anni dopo) e le Parmalat d’Italia

novembre 30, 2006


Pubblicato In: Giornali, Vanity Fair

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da Peccati Capitali

Cinque anni fa scoppiò lo scandalo Enron, che spazzò via un’azienda da 100 miliardi di $. Poco dopo fu la volta di Tyco, e di World Com, la maggiore in questa orrida graduatoria. Per ottenere risultati sempre migliori in crescita (e lauti bonus per gli amministratori), avevano messo in atto spericolate operazioni sui derivati, che andarono male. Nascosero i guai col vecchio trucco delle partite zoppe, mettere i debiti a carico di un’apposita società e “dimenticarsi” di consolidarla, e al dunque fallirono. Per non aver fischiato il fallo, anche Arthur Andersen, la più famosa delle società di revisione, finì nel gorgo e cessò di esistere.

Avvenuti pochi mesi dopo l’attacco alle torri del World Trade Center, anche questi crolli furono visti come un attacco al sistema economico americano. Anche in questo caso la reazione fu rapida, esemplare, unitaria. Fu approvata una legge bipartisan, la Sobranes Oxley, pene detentive ancor più severe per gli amministratori colpevoli, obblighi ancor più pesanti per le aziende. Noi guardiamo con sufficienza a presidenti e CEO che giurano sulla Bibbia che i bilanci sono veritieri, ma l’America é un Paese in cui non si ostracizza chi fallisce, ma si manda a casa un Presidente che mente.
Quando nell’ottobre 2003 la Parmalat dichiarò che non era in grado di pagare un bond, e si iniziò a percepire l’entità del disastro, 4, 8, forse 14 miliardi €, si gridò alla Enron italiana. Identico il trucco, le novità stanno nei dettagli: la spavalderia di chiamare “buconero” il conto e “Bonlat” la società in cui venivano scaricate le perdite, l’espediente da magliaro di falsificare al computer la carta intestata della banca. Mentre in USA nulla si trovò a carico dell’autorità di controllo, la SEC, da noi sul banco degli imputati finirono le banche, soprattutto Intesa e Capitalia, accusate di aver venduto a ignari clienti titoli Parmalat, e prima Cirio e prima ancora Repubblica Argentina. E con loro chi avrebbe dovuto vigilare, il Governatore Antonio Fazio. Non lo dimenticherò mai, in Commissione al Senato, difendere le banche (e se stesso) perché, in ogni caso, sarebbero state “poche persone e pochi soldi”. Fu subito chiaro che la vera partita era la riforma di Bankitalia, la durata del mandato e i poteri del Governatore. A vincerla non furono i miliardi in fumo, i risparmi falcidiati, le 3000 pagine di audizioni parlamentari, bensì la telefonata di un ambiziosetto di provincia, che credeva di aver conquistato Antonveneta con i suoi ”peccati capitali”. L’euforia notturna di un “bacio in fronte”, offerto e neppure dato.

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