Al Direttore.

Come fare uscire le fondazioni dalle banche, per fare che cosa, come investire i proventi delle dismissioni; questi i tre temi da affrontare con la legge sulle fondazioni bancarie. Ecco come il Senato li ha risolti.

1) Per spingere le fondazioni a uscire dalle banche si offrano incentivi fiscali. Negli ultimi anni molte situazioni si sono mosse – Cariplo, San Paolo, Banca di Roma, Unicredito per citare le maggiori – grazie alle forze di mercato, non degli incentivi. Ma in tutti i casi le fondazioni restano azionisti assolutamente preminenti nel capitale delle banche. La legge ratifica questa posizione: con poco meno della maggioranza assoluta potrebbero ancora avere i benefici fiscali. 2) Oltre che perseguire “interessi sociali”, le fondazioni potranno anche promuovere lo sviluppo economico. Un ordine del giorno da me proposto esclude almeno che le fondazioni, appena uscite dalle loro banche, possano mettersi a fare le finanziarie regionali: ma il varco è aperto, e sarà difficile presidiarlo. 3) Con il ricavato della vendita delle banche le fondazioni possono prendere partecipazioni in imprese private. Cioè la legge dà incentivi perché escano dalle banche, ma col ricavato potrebbero comprarsi Telecom. Tra tutte, avrebbero anche i soldi per farlo. Il 63% dei vertici delle fondazioni a struttura istituzionale sono di nomina politica; il 69% di quelle a struttura associativa sono cooptati (dal Terzo Rapporto ACCRI, la loro associazione, pagg. 41 e 42). E’ facile capire perché molti hanno ragione di essere contenti di questa legge: io l’ho combattuta.
Con sincera cordialità.

La risposta di Giuliano Ferrara
Il senatore Debenedetti denuncia con elegante malizia la persistenza della politica e delle sue ansie nell’economia finanziaria, nel suo cuore bancario. Svellere una vecchia costruzione corporativa, che offre dividendi a partiti e caste, non è facile. Ci vuole tempo.

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