di Antonio Padellaro
«Lei ha spaccato l’Italia», diceva l’altra sera rivolto a Silvio Berlusconi, Franco Debenedetti, senatore dei Ds. E lo ripeteva con tale garbata, efficace arrabbiatura che per un momento il premier si è ammutolito come folgorato da una scintilla di vergogna, subito però affogata nell’abituale mare di parole. Eravamo a “Otto e mezzo” e Debenedetti manifestava la delusione di quei riformisti che cinque anni fa avevano sperato nel programma liberale con cui Berlusconi aveva vinto le elezioni, salvo poi amaramente ricredersi. Sulla linea dell’Unità Debenedetti, spesso, non si è detto d’accordo imputandoci (come altri, del resto, nella sinistra) un eccesso di radicalità nell’opposizione all’autocrate di Arcore. Questo avveniva prima, perché oggi nella frase di Debenedetti su colui che ha spaccato l’Italia ci riconosciamo completamente a dimostrazione che, riguardo a Berlusconi, la realtà, nel frattempo, ha superato ogni immaginazione (e perfino i nostri titoli) mettendo tutti d’accordo. L’avversione contro il peggior governo che si ricordi non è però il solo cemento che tiene insieme il centrosinistra, come la destra vorrebbe far credere.
Primo. L’Unione ha un candidato leader unico, Romano Prodi, scelto da tutta la coalizione e legittimato dagli oltre tre milioni di cittadini che hanno scritto il suo nome alle primarie dello scorso ottobre. La destra ha tre diversi candidati premier visto che, come ha spiegato Gianfranco Fini, in caso di vittoria elettorale salirà al Quirinale chi avrà ottenuto anche un solo voto più degli altri. Berlusconi è avvertito.
Secondo. Se vince, Prodi governerà per l’intera legislatura. In caso di crisi, si torna alle urne. Su questo c’è un preciso accordo tra i leader della coalizione.
Terzo. L’Unione ha un programma comune le cui priorità saranno illustrate oggi, a Roma, da Romano Prodi. Del programma della Casa delle libertà, invece, nessuna notizia.
In mancanza di meglio, quelli della Cdl calcano la mano sulla defezione di Emma Bonino (in disaccordo su fondi alle scuole private e sulla non piena accettazione delle unioni civili), sulla protesta di Boselli (per le stesse ragioni), sui mugugni di Mastella (per i motivi opposti).
Questo proverebbe il carattere raccogliticcio dell’Unione e dunque, per Prodi, l’impossibilità di dare vita a un governo stabile e autorevole. Ha ragione dunque Fini quando ironizza sull’impossibilità di far camminare insieme il no global Caruso con il monarchico Fisichella? Si potrebbe facilmente ribaltare l’argomento sulla destra dove, tra gli incroci più bizzarri, si segnalano quelli tra Calderoli, teorico della pura razza padana, e il siciliano Lombardo. Ma lì siamo al carnevale mentre la coesione possibile tra i nove o dieci partiti del centrosinistra è un problema reale che va affrontato seriamente e senza sottovalutarne i rischi.
Non è tanto un problema di adesso poiché, più ci si avvicina al 10 aprile e più lo spirito di coalizione verrà rafforzato dall’imperativo categorico di battere Berlusconi. Insomma, le perplessità della Bonino, di Boselli, di Mastella non sembrano, per ora, destinate a creare fratture irreversibili. Complici le liste proporzionali ciascuno tirerà l’acqua al suo mulino.
Però, senza esagerare. Ma dopo, se si vince, come farà il presidente del Consiglio Prodi a tenere insieme spinte e interessi tanto diversi, senza doversi impegnare ogni momento in logoranti mediazioni?
La prima risposta è contenuta nel programma. Che rappresenta gia un vincolo difficilmente superabile poiché i punti fondamentali (economia, diritti, politica estera, questioni etiche) sono stati sottoscritti da tutti. La seconda risposta sta nella volontà effettiva di governare insieme per cinque anni, senza trucchi, senza sgambetti. Esiste questa volontà? E quanto essa è forte?
Avrete notato che fino a questo momento non abbiamo fatto cenno a Rifondazione comunista. Eppure è su questo partito che, in genere, vengono formulate le maggiori preoccupazioni di tenuta, diciamo così, governativa. Con qualche fondamento. L’esperienza del primo governo Prodi, per esempio, quando dopo molte fibrillazioni il Prc ritirò i suoi voti con quel che ne seguì. Poi, il carattere socialmente «antagonista» di questa sinistra, incline a confliggere con le ragioni del centro moderato dell’Unione ( Margherita e Udeur). Infine, la presenza sotto le bandiere con la falce e il martello di quell’area no global e dei centri sociali che turba i sonni di chi vigila sulle Olimpiadi di Torino, incarnata come meglio non si potrebbe dal disobbediente Francesco Caruso.
Sull’argomento abbiamo letto due commenti in qualche modo speculari, pur se pubblicati da giornali di orientamento molto diverso. Secondo Sergio Romano (Corriere della Sera) è inutile che la sinistra riformista chieda a Rifondazione di mettere ordine fra le sue truppe perché ciò non e politicamente possibile. Si deve, dunque, in qualche modo accettarne l’ambivalenza pregando Dio che a Prodi non si ripresenti un altro ‘98. Dell’articolo di Piero Sansonetti (Liberazione) basta citare, invece, il titolo quanto mai espressivo: «Cosa si rimprovera al Prc? L’indipendenza». Ovvero: noi non rispettiamo le solidarietà di ceto politico e dunque né Fassino né Rutelli pensino di normalizzarci.
Su queste premesse Prodi e i futuri governanti dell’Unione avrebbero certo di che riflettere se al centro di tutto non ci fosse Fausto Bertinotti. È lui che ha stretto il patto con Prodi. Lui che lo ha sostenuto e fatto approvare dal suo partito affrontando un’agguerrita opposizione interna del 40 per cento. Ed è sempre il segretario, stando alle cronache dell’altra sera, ad essere stato il più convinto sostenitore del progetto che oggi Prodi illustrerà all’Eliseo. Se si pensa al passato può sembrare un paradosso ma, oggi, Bertinotti rappresenta una forte garanzia per il futuro governo dell’Unione. E per la sua stabilità.
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