Di che cosa si parlerà, in realtà, oggi?
La convocazione del Ministro del Lavoro parlava di verifica del piano Fabbrica Italia, quello lanciato da John Elkann e Sergio Marchionne il 21 aprile, che prevedeva, all’interno del piano generale dei 6 milioni di vetture tra Fiat e Chrysler, di farne in Italia 1,4 milioni, di cui due terzi da esportare.
Dopo il referendum di Pomigliano, Governo e sindacati hanno continuato a ripetere che quella era una grande vittoria, e a sollecitare Fiat ad andare avanti, incominciando a spendere i 700 milioni promessi. Il gioco di prestigio non è riuscito, ma penso che Marchionne confermerà che lui quelle vetture vuole proprio farle in Italia. C’è da credergli, perché questo non è dovuto alla sua “benevolenza”, ma al suo “interesse”. Si mena il can per l’aia a chiedersi se la Fiat sarà americana o italiana, se gli Agnelli si disimpegneranno. Veniamo al sodo: è interesse della Fiat mantenere una importante presenza manifatturiera in Italia perché in nessun Paese del mondo una fabbrica di auto ha un terzo del mercato senza avervi una forte presenza industriale. Perché ce ne corre tra il non ricevere aiuti di Stato (che l’Italia non potrebbe dare e che i concorrenti farebbero sanzionare da Bruxelles) ed essere un’azienda apolide. Perché nessuna azienda che si ritrova con due passaporti ne butta via uno.
Fiat con il piano Fabbrica Italia dice le quantità che intende produrre in Italia; con l’accordo di Pomigliano dice le condizioni – garanzia dei costi e rispetto delle consegne – che ritiene indispensabili per venderle. Diritti costituzionali calpestati, Napoli bombardata come la Serbia, l’Italia sospinta tra le nazioni del terzo mondo? No: soltanto una nuova organizzazione del lavoro che è ormai standard mondiale, retribuita secondo lo standard nazionale, negoziata in un serrato confronto con i sindacati, e approvati da tutti tranne la FIOM-CGIL. Quindi, nell’incontro odierno, c’è un problema solo di cui parlare. Oggi, e lo si ripete ancora una volta, un dipendente di Pomigliano, anche iscritto a uno dei sindacati che ha firmato l’accordo, potrà aderire allo sciopero degli straordinari già dichiarato dai Cobas da qui al 2014, senza nessuna delle sanzioni previste dall’accordo. A legislazione vigente, un accordo anche se firmato da sindacati che rappresentino la maggioranza dei dipendenti, oppure ratificato dalla maggioranza dei partecipanti a un referendum aziendale è zoppo dal punto di vista dell’efficacia nei confronti di tutti i dipendenti.
Altro che fare domande: è la risposta che manca alla richiesta di garanzie che l’accordo firmato con i sindacati sia rispettato da tutti in fabbrica. Scartata, e non si saprebbe darle torto, l’ipotesi di provare a convivere con una microconflittualità strisciante, Fiat ha elaborato una sua soluzione: conferire Pomigliano a una nuova società che assumerà tutti i dipendenti attuali, ma che non aderirà a Federmeccanica, e a cui quindi non si applica il contratto nazionale che questa ha firmato. CISL e UIL, quando dicono sì alla NewCo, ma no alla disapplicazione del contratto, dicono una cosa contraddittoria: la sola ragion d’essere della NewCo è di evitare il contratto nazionale.
Sarà così risolto il problema giuridico dell’incerta efficacia, nella nuova impresa, delle deroghe al contratto nazionale, non più applicabile; ma si apriranno problemi pratici non meno gravi. In base al referendum del 1995 hanno diritto a costituire rappresentanze sindacali soltanto i sindacati che abbiano firmato un contratto collettivo di qualsiasi livello applicato nell’azienda. La Fiom, che non fa firmato l’accordo per Pomigliano, naturalmente non lo firmerà neppure con la nuova società.. Quindi i suoi tesserati saranno assunti, ma il sindacato da cui vogliono essere rappresentati resterà fuori dallo stabilimento e dal suo nuovo sistema di relazioni industriali. I rappresentanti Fiom avranno, in fabbrica, lo status dei rappresentanti di una bocciofila. Dato che nulla impedisce di replicare questo modello in tutte le fabbriche Fiat in Italia, e in tutte le aziende italiane che abbiano interesse a farlo, nulla impedirà, sul piano giuridico, che il maggior sindacato italiano venga di fatto estromesso dalle aziende. La prima conseguenza sarà di buttare Epifani nelle braccia di Cremaschi. Ma poi? Non si vede il rischio che, con l’intento di rendere una fabbrica più governabile, si peggiori fino all’ingovernabilità l’intero sistema delle relazioni industriali in Italia?
Il Governo ha una posizione incomprensibile. Sul piano NewCo, sembra considerarlo un affare della Fiat, senza quindi né sostenerlo né sconfessarlo. Come se le responsabilità per quello che può succedere non fossero in primo luogo sue. Tanto più che esiste una soluzione legislativa, praticabile probabilmente senza difficoltà politiche, che darebbe le stesse garanzie sull’applicazione del contratto, comprese le clausole sanzionatore applicabili alla totalità dei dipendenti, senza mettere la Fiom fuori dalla porta. Anche questo è stato detto più volte: basterebbe approvare una legge che riconosca la possibilità per il contratto aziendale di derogare dal contratto nazionale se stipulato dalla coalizione maggioritaria o approvato a maggioranza dai lavoratori, e quindi il carattere vincolante per tutti delle clausole di tregua inserite nel contratto stesso. Certo che il first best è un accordo interconfederale che contenga queste regole; ma perché esso risolva il problema occorre che sia firmato da tutte le confederazioni maggiori. In mancanza di che l’intervento legislativo è necessario in via provvisoria e sussidiaria; ma è pur sempre indispensabile.
Che dire di un sindacato che rifiuta la soluzione contrattuale del problema? E che dire di un legislatore che, di fronte allo stallo sindacale, scarta a priori la soluzione legislativa?
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